“Un summit senza vincitori né vinti”: è stata una headline particolarmente utilizzata nei commenti mediatici a caldo all’indomani del G20 di Londra. E per molti è stato un esito “scontato”. Lo hanno notato con delusione gli scettici sull’efficacia di questi vertici-kolossal di fronte alla gravità della crisi globale; ma anche coloro che – con qualche ansia, sui mercati finanziari – temevano invece che nella capitale britannica l’azione politica trovasse unità e salisse di tono in direzione di un maggior interventismo pubblico: sul versante delle politiche di stimolo economico (caldeggiate dal neo-presidente Usa Barack Obama) o su quelle delle regole finanziarie, più care ai leader dell’Europa continentale, la tedesca Angela Merkel e il francese Nicolas Sarkozy. L’apparente “pareggio” emerso dal G20 non sembra però sinonimo di “nulla di fatto”. Va certamente decifrato, in qualche caso sullo sfondo di altri passaggi di questa intensa settimana geopolitica.

Anzitutto: “No fresh stimulus” nessun nuovo stimolo, sopratitolava il Financial Times, venerdì mattina. Non è affatto una “non notizia”. Obama – che pure si è presentato a Londra con piani “trilionari” in dollari già varati – ha preso atto che alzare ancora la posta non è economicamente sostenibile in un mondo ancora articolato in bilanci pubblici nazionali (qualcuno non in salute); e non è politicamente e culturalmente praticabile, se non a rischio di sentirsi tacciare di “neo-socialista”, forse perfino nell’Est europeo dove il presidente americano ha voluto spingersi.

La Merkel non ha voluto cantare vittoria, ma di certo ha avuto peso il riflesso quasi viscerale di 90 milioni di tedeschi: i nipoti di quelli che hanno visto un dollaro valere 500 miliardi di marchi; ma anche i contemporanei (dell’ex Germania Est e dell’ex Germania Ovest) che hanno appena finito di “pagare” l’unificazione sancita dal cambio politico alla pari tra le valute ai due lati del Muro. È un avvertimento sociopolitico che i professionisti della finanza, impazienti di ricominciare il loro gioco, farebbero male a sottovalutare, sulle due sponde dell’Atlantico: non è più immaginabile utilizzare la leva monetaria per risollevare velocemente economia sedute o crollata; non è più pensabile far uso con successo (come ad esempio nelle due crisi di Wall Street a fine anni ’80) di potenti getti di liquidità come “idrante globale” per spegnere velocemente il falò delle Borse. La recessione non cancella la paura di una ripresa puramente inflazionistica.

Come sottolinea il ministro dell’economia italiano Giulio Tremonti, «non si chiude una crisi di debito privato trasferendola sul debito pubblico». Il pauroso crollo della fiducia – e quindi del credito, dell’investimento, della domanda di consumo – non si cura giocando a dadi con le monete. L’economia va fatta ripartire da dov’è arrivata e facendole fare i passi che può compiere. Un esempio concreto? La Chrysler va ripulita dei suoi debiti (e qualcuno dovrà pagarli, a cominciare da banche sovraesposte) e le sue attività industriali rilanciate, ovviamente a costo di ristrutturazioni occupazionali e al lordo di effetti geopolitici come la perdita della storica leadership di Detroit nel settore auto, magari attraverso un’alleanza con un produttore europeo come Fiat, anch’esso in cerca di nuove strade. Qui sia i politici che i tecnocrati dovranno fare un passo indietro: non tutti i posti di lavoro degli elettori saranno salvati, ma non neppure tutte le banche creditrici o i fondi comuni investitori potranno attraversare indenni questo “campo di battaglia” della crisi.

Il fronte della ri-regolazione del sistema ha invece partorito una notizia apparentemente piccola ma autentica. Il Financial Stability Forum – finora una specie di ufficio studi informale di G-8 e G-20, a lato del Fondo Monetario internazionale – sarà trasformato in “Financial Stability Board”. Un passaggio quasi virtuale, dai contenuti indefiniti. Si tratta però di un nucleo di risposta all’esigenza condivisa in linea di principio, di una supervisione finanziaria più forte e più coordinata a livello internazionale. È stata affidata, non a caso, al Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi: personaggio che più di tutti, in questa fase, poteva incarnare una difficilissima mediazione. È un banchiere centrale europeo, ma la sua ortodossia libero-mercatista è certificata dagli anni passati come alto dirigente della Goldman Sachs. E non è una coincidenza che sia stato proprio Callum McCarthy – l’ex presidente della Fsa, la contestata authority della City di Londra – a salutarlo già apertamente come futuro gestore di un organismo che inizi a macrovigilare almeno su quei giganti dell’intermediazione che possono causare collassi sistemici, come lo scorso autunno la Lehman Brothers.

Ma è stata la Gran Bretagna – più ancora che gli Stati Uniti – a obiettare al pressing franco-tedesco per il varo accelerato di pacchetti pesanti di vigilanza e regole. Come già notava questa rubrica, la diagnosi, nel Vecchio Continente, rimane chiara: la recessione economica nella quale ci dibattiamo è figlia degli eccessi finanziari non vigilati né gestiti dalla deregulation imperante tra la City e Wall Street. E Draghi rimane un paladino non pentito di quel modello, mentre l’abbozzo di un possibile “incubatore” di una nuova authority sembra andare in direzione opposta all’attribuzione di funzioni di vigilanza sovrannazionale all’ormai potente Bce. Qui il confronto – sottile – è tra tecnocrati espressione dei mercati e della loro volontà di riaffermare in fretta il loro primato frantumato; e tecnocrati più sensibili al ruolo dei Governi, in questo momento molto legittimati, anche se sempre sospettati di volere inquinare l’economia.

Proprio all’indomani del G20, intanto, un organismo indipendente come il Fasb americano (che fissa e interpreta i principi contabili) ha deciso di allentare fortemente la regola “mark-tomarket” per i titoli illiquidi o “tossici”. Le grandi banche americane, in concreto, nel redigere a giorni i loro bilanci per il primo trimestre 2009 non sono più obbligate a svalutare o addirittura azzerare il valore di centinaia di miliardi di dollari di titoli, con il rischio di perdite ed erosioni di patrimonio insostenibili. Anche l’Europa, per la verità, aveva già parzialmente allentato le regole, ma quella proveniente dall’America è suonata come un “rompete le righe” strutturale di cui, non a caso, anche molti governanti europei hanno subito chiesto l’estensione e la generalizzazione.

Davvero difficile definire quest’ultima una “buona notizia”. È vero che nuovi fallimenti bancari diventeranno meno probabili e che viene di fatto aperta una moratoria che potrebbe agganciare una fase di ripresa dei mercati. E lo scenario roseo – se il parallelo non sembra fuori luogo – potrebbe essere analogo a quello che vide il bilancio finale dell’attacco alle Torri Gemelle contare meno di tremila morti e non i ventimila stimati la sera dell’11 settembre. I titoli tossici potrebbero in parte “guarire”, anche perché nel frattempo i più gravi sarebbero stati trasferiti in cronicari finanziati dallo Stato: i “veicoli” recentemente individuati dal segretario al Tesoro americano Tim Geithner.

Ma il grosso dei titoli “malati” resterebbero in casa loro: nei bilanci delle banche, che potrebbero non dichiarare il loro stato di salute o magari relegarli in aree contabili e finanziarie. In ogni caso, non dovrebbero disfarsene immediatamente, affrontando processi di valutazione estremamente problematici, per non parlare degli aspetti legali e giudiziari.

Una “non-trasparenza” deliberata e pilotata è la via privilegiata od obbligata è alla fine l’exit strategy? La cronaca degli ultimi giorni ha anche registrato ballon d’essai tutti da interpretare: come l’ipotesi che le grandi banche possano scambiarsi tra di loro i titoli tossici (ma qui l’osservatore italiano non può non arricciare il naso pensando i falsi in bilancio strutturali dei club di calcio che si scambiamo oscuri calciatori a cifre esorbitanti).