Sembra veramente lontanissimo il 31 maggio 2008, quando Mario Draghi lesse le terze Considerazioni finali di un Governatorato mai tranquillo: nato sulla scia dei crack Parmalat e Cirio e delle scalate ad AntonVeneta e Bnl e addentratosi poi nel ciclone della crisi globale.

Un anno fa lo tsunami era già innescato, ma Draghi potè ancora permettersi di affermare: «Arrestare l’innovazione finanziaria renderebbe i mercati più poveri e non più sicuri». Cinque mesi dopo la finanza strutturata fece esplodere Lehman Brothers e oggi gli Stati – quasi del tutto loro malgrado – sono tornati largamente dominanti sui mercati nel controllo dei sistemi bancari.



Draghi sottoscriverà – lui pure malgrado tutto – il suo credo liberista anche venerdì prossimo, quando in Via Nazionale andrà in scena una nuova assemblea annuale? Sono settimane che il Governatore italiano si muove in relativa riservatezza. Da quando il G-20 di aprile a Londra lo ha “promosso” leader del Financial Stability Board – qualcosa di più del precedente “forum” informale – sembra più ancor più preoccupato della sua proiezione internazionale: com’è accaduto ancora venerdì scorso, quando ha ricevuto in Bankitalia il Gruppo dei 30, presieduto dall’ex numero uno della Fed Paul Volcker. Era presente qualche raro banchiere italiano (come l’amministratore delegato di Mediobanca, Alberto Nagel) ma in forma altrettanto privata.



Dalla conferenza stampa finale è giunta una previsione attesa: a fine giugno il Fsb approverà una raccomandazione formale a porre tetti ai superbonus dei banchieri, ancorandoli alla redditività di medio periodo. Ma è sembrato ancora un piccolo gesto distensivo dell’establishment bancario verso un’opinione pubblica sempre più di cattivo umore: dal presidente di Lloyds Bank a quello della piccola Popolare dell’Etruria, sono sempre di più i banchieri dissellati.

E mentre sabato al seminario Aspen di Venezia – ha sottolineato il Corriere della Sera – attorno a Giulio Tremonti c’erano solo “anti-mercatisti” (a cominciare da Romano Prodi), nei giorni scorsi ha fatto quasi più clamore la ricomparsa del predecessore di Draghi a Palazzo Koch: Antonio Fazio, costretto alle dimissioni a fine 2005 e tuttora formalmente sotto processo per abuso d’ufficio in vigilanza nel caso Popolare Lodi-AntonVeneta. Eppure il suo ex vicedirettore generale Tommaso Padoa-Schioppa ha accettato di buon grado un confronto pubblico con l’ex Governatore.



In disaccordo su quasi tutto, “Tps” con l’eterno euroscettico Fazio: ma non sul fatto che il successore per dodici anni di Carlo Azeglio Ciampi alla Banca d’Italia sia tornato un interlocutore rispettabile su temi di politica economica. Dopo quanto è stato dato di vedere a Wall Street o nella City sul terreno della supervisione bancaria, il ruolo di Fazio – che è imputato di aver vigilato male sui coefficienti patrimoniali della Bpi – è già soggetto quanto meno una più equilibrata valutazione storica.

Fazio si battè – con metodi ultradirigisti e alla fine oggettivamente controversi – per un sistema bancario fortemente “nazionale”. Fu lui peraltro a propiziare nella primavera 2002 il piano di salvataggio della Fiat, che alleggerì il Lingotto semifallito di tre miliardi di euro di debiti presso le banche italiane. Senza quell’intervento oggi Sergio Marchionne non starebbe lottando (anche se con grande difficoltà) per conquistare Opel in Germania: e chissà se il punto debole del suo piano (l’assenza di investimenti per cassa) non possa essere ovviato in extremis proprio dalle grandi banche italiane.

In ogni caso lo scorporo annunciato della Fiat Auto (previsto in dettaglio due settimane fa da questa rubrica) avrà bisogno di un sistema bancario italiano vicino e attento, comunque vada a finire in Germania. Non è un caso che sia Intesa Sanpaolo che UniCredit siano state già chiamate da Fiat come advisor dello spin-off auto: come minimo avranno voce in capitolo nella decisiva ripartizione di asset e passività tra la Fiat Spa e la nuova Fiat Auto quotata in Borsa, certamente destinata a essere ristrutturata assieme a Chrysler.

Banche “nazionali” a supporto di “grandi imprese nazionali” era per l’appunto l’approccio sostanzialmente “antiglobalista” e “antimercatista” di Fazio, cioè l’esatto contrario della “vision” di Draghi: il quale peraltro è stato a lungo vicepresidente esecutivo della Goldman Sachs, puntualmente chiamata da Fiat come terzo consulente. Non per questo il Governatore ha rinunciato – nei giorni scorsi – a un atto solo apparentemente amministrativo, ma sintomatico di convinzioni tuttora ferme. Con un semplice “comunicato al mercato”, anche se d’intesa con il Tesoro di Tremonti, Draghi ha dichiarato in vigore una norma già approvata a livello Ue ma recepita dal Parlamento italiano entro i termini previsti (21 marzo scorso).

Si tratta della sostanziale “liberalizzazione” del possesso di quote azionarie di banche fino al 10% senza più necessità di autorizzazione della Banca d’Italia: il tetto era fissato finora al 5%. Il passo è istituzionalmente meno tecnico e meno scontato di quanto sembri. Da un lato, un’authority indipendente, ma non certo dotata di poteri legislativi, ha introdotto di fatto una regolamentazione con forza di legge: certo, ha pesato il ritardo del legislatore italiano, ma il tecnocrate globale Draghi è volentieri entrato nella parte del “facitore di norme”.

È un ruolo cui è probabilmente destinato a livello internazionale, anche se non è chiaro come si strutturerà la nuova vigilanza globale in cantiere tra Usa, Fmi e Ue: sulle grandi banche europee vigilerà la Bce oppure un autorità distinta? E come si raccorderà la supervisione tra le due sponde dell’Atlantico? Ecco un tema sul quale dalle Considerazioni finali sono certo attesi dei lumi. Ma la possibilità di diventare padroni del 10% di una banca senza passare per Via Nazionale è un cambio di regola del gioco sostanziale e tutt’altro che banale, anche se il motivo è l’armonizzazione regolamentare in Europa.

In concreto, la Banca d’Italia non vuole perdere un solo giorno, rispetto alle altre aree concorrenti per favorire investimenti in titoli bancari, sia di mercato primario che di secondario: se c’è un hedge fund che vuole effettuare una grossa scommessa su una banca italiana, deve potere investire oltre il 5% e fino al 10% avendo mani sostanzialmente libere. Idem se altri soggetti vogliono immettere capitali freschi in una banca, d’accordo con il management.

È, ancora una volta, l’applicazione sollecita di una visione ortodossa: solo il mercato può curare i suoi mali, sarebbe un errore mortale dimenticarsene. In autunno la cosiddetta “crisi bancaria” è esplosa anzitutto sui listini azionari (e in Italia fortunatamente quasi soltanto lì). Ripristinare la fiducia – secondo Draghi – transita quindi ancora attraverso il progresso dei processi di liberalizzazione e privatizzazione di lungo periodo della finanza: non attraverso frenate troppo brusche o addirittura il loro arresto.

È pur vero che Draghi si è mosso negli stessi giorni in cui quattro grandi banche italiane (UniCredit, Banco Popolare, Bpm e Montepaschi) stanno operativamente aprendo alla sottoscrizione di Tremonti-bond. Dopo un semestre di confronto sotterraneo, molti osservatori non scommettevano più sull’intervento statale in Italia: la crisi sembra attenuata e le banche italiane (vedremo se Draghi lo ribadirà il 29 maggio) sembrano aver retto meglio di altre.

Invece, soprattutto UniCredit si è risolta a chiedere 2 miliardi di capitali pubblici: segno che il bilancio di Piazza Cordusio non è più malato (lo indicano gli utili 2008) ma probabilmente non è neppure guarito completamente (ciò che vale anche per gli altri grandi gruppi). La recessione sta colpendo ora l’impresa italiana e l’impatto sui portafogli crediti delle banche non è ancora evidente e il rischio di aumento delle sofferenze italiane è potenzialmente più elevato (per un gruppo ancora largamente concentrato sul mercato italiano e su quello tedesco) di quanto temuto dai paesi dell’Est europeo.

Ma anche sul crinale tra aspettative di uscita dall’economia e prospettive proprietarie e gestionali del sistema bancario, è difficile che Draghi possa essere elusivo: i Tremonti-bond sono stati annunciati e continuano a essere concepiti essenzialmente come un intervento “salva-credito” e non “salva-banche”, tanto meno “salva-banchieri”. Su questo all’ultimo Credit-day Tremonti è stato ironico e polemico, suscitando le reazioni del presidente dell’Abi, Corrado Faissola. Il quale ha potuto esibire statistiche sui tassi d’interesse a suo dire confortanti nel confronto europeo: ma non ha certo potuto fare altrettanto di fronte alla quotidiane accuse di ingiustificato razionamento del credito alle imprese, soprattutto ai 4 milioni di piccole e medie che non si chiamano Fiat.

Ancora una volta, Draghi è chiamato a spiegare se i mercati finanziari che curano sé stessi con il “deleveraging” e gli aumenti accelerati dei presidi patrimoniali in banca, non mettono a rischio la salute congiunturale e forse addirittura la struttura di intere economie nazionali.