È stato un commento editoriale de Il Sole 24 Ore – il quotidiano dei mercati, non un organo di informazione politicamente orientato – a stabilire un parallelo di stretto mercato tra il caso del presidente della Popolare dell’Etruria, Elio Faralli, e il presidente del consiglio di sorveglianza di A2A, Renzo Capra.

Il primo è stato sfiduciato pochi giorni fa dal suo consiglio d’amministrazione: a 87 anni, dopo quasi trenta di presidenza. Senza nulla togliere ai meriti (passati) di un personaggio che ha fatto certamente molto per l’economia e la società di una vasta porzione dell’Italia centrale e per il mondo del credito popolare, di cui resta presidente onorario dell’Associazione nazionale.

Ma quando è in gioco il destino di quella che è diventata una grande banca – quotata in Borsa – e quando la pressione della crisi e della competizione sale velocemente di livello, la “seniority” non è più un valore: diventa un handicap – di sostanza manageriale oltre che d’immagine sui mercati finanziari – esattamente come lo è diventata negli ultimi tempi l’eterna “juniority” di tanti top manager travolti dall’eccessiva passione per il rischio e dall’azzardo morale.

Se poi, come le voci dicevano di Faralli, la debolezza senile portava a indirizzare la banca verso un concorrente vicino, la seniority diventa peccato. E a differenza di queste anziane “vacche sacre”, certi giovani leoni in difficoltà a Wall Street, nella City o magari anche nei dintorni di Piazza Affari, possono almeno difendersi dietro un curriculum formalmente manageriale, anche se non hanno certo mancato di coltivare attente relazioni con la politica e i poteri pubblici.

Chi invece, come il 79enne Renzo Capra, è entrato all’Asm d Brescia quando ne aveva 36 e l’azienda era ancora una municipalizzata completamente incorporata in un’amministrazione comunale, è senza speranza se pretende di farsi passare per tecnico solo perché si è laureato in ingegneria elettrotecnica negli anni 50: i “tecnici” della sua generazione sono già in pensione da un pezzo.

Come del resto i politici della Prima Repubblica: che – dalle stanze dei bottoni della vecchia Dc bresciana – hanno favorito l’ascesa di Capra a Brescia. Tutto questo senza nulla togliere al ruolo e all’operato della vecchia Dc, della Prima Repubblica, dei funzionari più dinamici delle vecchie municipalizzate comunali: che erano comunque monopoli pubblici del tutto irresponsabili verso qualsiasi mercato (azionisti, clienti, stakeholders locali).

È quasi certamente da questo humus (morto e sepolto) di cultura politica, economica e professionale che Capra ha preso la mosse per la manovra – più disperata che spregiudicata – che ha paralizzato l’assemblea di A2A, facendone gratuitamente l’ennesimo zimbello per la credibilità della governance finanziaria italiana. Pretendendo di bloccare per un cavillo giuridico i voti dei due azionisti di controllo – i Comuni di Milano e Brescia – Capra ha commesso anzitutto una sorta di falso ideologico.

Nel sistema di governance duale adottato da A2A, il presidente del consiglio di sorveglianza non ha compiti manageriali: questi sono invece affidati al presidente del consiglio di gestione, Giuliano Zuccoli, leader operativo dell’Aem Milano prima della fusione con Asm Brescia. Il ruolo di Capra – che gli era stato riservato al di là dei limiti oggettivi dell’età – era esclusivamente quello di esercitare un’alta e ben distinta supervisione sui manager su stretto mandato fiduciario degli azionisti: quelli di maggioranza assoluta (i due Comuni) e quelli di minoranza (la holding bresciana Carlo Tassara e il gruppo elvetico Atel).

La clamorosa “rivolta” di Capra verso i suoi due azionisti di maggioranza – che unanimemente avevano deciso un ricambio nel consiglio di sorveglianza – non ha quindi alcun appiglio tecnico-finanziario: non è la protesta di un “manager capace sul mercato” che secondo un copione trito sarebbe puntualmente nel mirino dei “politici”. I “politici”, in quest’occasione, sono semmai preoccupatissimi che Capra metta a rischio A2A sul “mercato”: in termini di competitività strategica, di redditività nel tempo, di valore delle azioni in Borsa.

Sono i “politici” ad averne abbastanza del fatto che Capra – come un mandarino cinese in salsa vetero-lombarda – da mesi paralizzi una delle grandi utility italiane neanche fosse un vecchio “padrone delle tessere” della Dc o un datato federale del Pci. Sono i “politici” – come un qualsiasi “buon padre di famiglia” – a correre ai ripari dopo che il titolo è sceso, in un anno domani, da oltre 2,5 euro a meno di 1,4. Perché un sindaco – a differenza di Capra e di quanto lui stesso vuol continuare a credere – oggi risponde ai suoi cittadini anche come “asset manager” di importanti partecipazioni. A maggior ragione se queste partecipazioni sono in un’azienda strategica per il territorio: il fornitore di energia alle imprese e alle famiglie in una fase di durissima recessione.

Invece, mentre una partita come Opel si gioca sul filo degli interessi energetici globali (quelli dell’asse russo-tedesco che ha fermato Fiat a vantaggio di Magna-Deripaska), l’ingegner Capra s’improvvisa avvocato “ad honorem” sulla soglia degli 80 anni e gioca sulla pelle di tutti: giovani e vecchi, azionisti grandi e piccoli, clienti “corporate” e “sociali”, lombardi da quattro generazioni o imprenditori (datori di lavoro) immigrati.

La speranza – in vista del nuovo round assembleare, in programma il 3 giugno – è che voglia imitare certi banchieri-bancarottieri saliti alla ribalta negli ultimi mesi per le gigantesche buonuscite proporzionali ai buchi lasciati. Purché si levassero di torno in fretta, perfino Obama ha chiuso un occhio su qualche rivolo deviato dagli aiuti pubblici alle banche. Ma perfino la vecchia Dc era un’altra cosa.