La nuova settimana dei mercati è attesa anche dal collaudo psicologico delle scelte varate negli ultimi giorni sulle due sponde dell’Atlantico in materia di regole della finanza. La larga maggioranza dei commentatori si è già però pronunciata in termini sostanzialmente negativi sia sul progetto di riforma Obama-Geithner, sia sulle decisioni del vertice dei capi di Stati dell’Unione Europea.
Washington non ha certamente affondato il bisturi sulle molte piaghe ancora aperte a Wall Street, pur dopo aver destinato molto “sangue” dei contribuenti americani per salvare banche e Borse durante la fase più drammatica delle crisi. Obbligare – solo per fare un esempio – le banche che “originano” cartolarizzazioni a investirci almeno il 5% di proprie attività, vuol dire perpetuare virtualmente il modello di distribuzione selvaggia e non vigilata del rischio che ha prodotto il collasso dei mercati.
Sollecitare poi le agenzie di rating semplicemente a “cambiare colore” alle etichette dei rating per gli strumenti della finanza strutturata, è molto vicino alla presa in giro: quei presunti “esaminatori indipendenti” che attribuivano ancora il massimo merito di credito alla Lehman Brothers alla vigilia del crack, andavano commissariati, sciolti, espulsi dal mercati in qualche maniera; e al loro posto andavano costituite nuove agenzie, magari inizialmente a parziale controllo pubblico, magari non solo basate a Wall Street.
L’Europa – dal canto suo – si è nuovamente divisa (e purtroppo il refrain è appropriato per l’ennesima volta). Ha apparentemente segnato un insuccesso più marcato, rinviando, nei fatti, l’apertura del cantiere di una vigilanza sovrannazionale sugli intermediari finanziari. E si è trattato, con tutta evidenza, di un insuccesso multiplo: istituzionale (perché la Ue non ha rispettato un impegno preso all’interno degli organi comunitari e verso i cittadini dell’Unione); economico (perché le imprese e le banche europee non hanno potuto contare su un segnale tempestivo, forte e univoco, che sarebbe stato comunque di aiuto); infine geopolitico, laddove l’euro e la sua ancor giovanissima custode Bce hanno dato finora buona prova di sé – certamente migliore di Fed, Sec e dollaro – e non valorizzare questo patrimonio sfiora l’autolesionismo. Soprattutto quando i quattro Bric (Brasile, Russia, India e Cina) attaccano il dollaro e chiedono una radicale ristrutturazione del sistema valutario globale, guardando in realtà all’euro, pur con tutte le incognite del caso
Per chi comunque – come l’autore di questa noticina settimanale – ha sostenuto negli ultimi mesi la necessità di una svolta netta di “ri-regulation” contro la “de-regulation”, vi sarebbe in teoria spazio solo per pochi “sentimenti”: la delusione, il pessimismo per il futuro, la polemica contro lo scontro oggettivamente in atto tra establishment finanziario e poteri pubblici. È invece forse opportuno prendere atto che l’exit da una crisi globale paragonabile a una guerra mondiale ha tempi e modi di maturazione lunghi: e anche questo – detto en passant – può essere una lezione per chi pretende di rilanciare l’economia e i mercati agli stessi ritmi (rivelatisi illusori e insostenibili) cui la tecnofinanza aveva abituato tutti.
Nel merito, i mercati e i governi entrati in una sorta di “terra di nessuno” delle regole, non hanno certo perduto la possibilità di approdare verso nuovi equilibri. Se dovessero prevalere i mercati nella loro pretesa di archiviare quanto è accaduto come “incidente di percorso” i cui danni sono stati pagati dal risparmiatore-contribuente, dovremmo prenderne atto. La centralità dei mercati finanziari e la loro autoreferenzialità tecnica giustificherebbero d’ora in poi formalmente che l'”utilizzatore finale” della moneta e della finanza paghi anche il costo periodico di una crisi, assistendo d’altronde nei periodi di “non crisi” all’arricchimento dei banchieri.
Il parallelo – fin troppo crudo, ma immediato per l’opinione pubblica italiana – è Tangentopoli: per quanti anni milioni di italiani hanno accettato e spesso incoraggiato le “dazioni ambientali” alla pubblica amministrazione in un quadro di equilibrio politico-economico? Però a Wall Street non sono così tranquilli. L’avvertimento più forte è venuto dalla Cina, che ha iniziato a disinvestire in termini netti dal dollaro e dalla finanza americana. Decisione tecnica, viste le prospettive dei fondamentali Usa su bilancia commerciale e bilancio federale. Ma anche decisione politica: se il Giappone per decenni ha “dovuto” reinvestire i surplus in America, ottenendone in cambio difesa verso il gigante rosso cinese, Pechino oggi può – entro certi limiti – tenersi le carte in mano.
Wall Street “no-regulation” (magari rispetto ad altri baricentri economico-finanziari più e meglio regolati) potrebbe essere meno competitiva del previsto: un fondo pensioni europeo avrà prevedibilmente un minor “appetito di rischio” (soprattutto laddove i suoi sottoscrittori saranno d’ora in poi un po’ più attenti alla gestione) o addirittura potrebbe essere obbligato da nuove regole (esterne o di autodisciplina) a non correre rischi non controllati. È uno scenario geofinanziario molto spinto, ma non più soltanto teorico.
D’altronde anche il dossier sulla vigilanza europea è ancora molto aperto negli sviluppi: con orizzonti in parte sovrapponibili a quelli del caso americano. Il vero oggetto del contendere è il coinvolgimento della Bce nella supervisione diretta della grandi banche sistemiche europee (in Italia UniCredit e Intesa Sanpaolo). Anche nell’ultima due giorni di Bruxelles il via libera è stato di fatto negato dalla Gran Bretagna: a Londra non permetteranno mai che dei banchieri centrali sostanzialmente franco-tedeschi siano informati e coinvolti in tempo reale dei grandi affari che transitano nella City per la definizione e il finanziamento. Però il veto giunge da un paese (non fondatore) dell’Unione (Ue a 27) che non fa parte dell’euro-zona (Uem a 16). La sterlina, ancora una volta, è fuori dall’euro per preservare la natura sostanzialmente “offshore” della piazza di Londra.
Ma a metà 2009 la Gran Bretagna è in preda a una profonda crisi politico-economica: il governo Brown è sostanzialmente dimissionario dopo aver salvato un sistema bancario per larga parte fallito compromettendo le finanze pubbliche. L’industria finanziaria della City è certamente strategica, ma i suoi interessi domineranno all’infinito quelli del paese reale oltre Manica? Sull’altro versante: i paesi del’euro-zona sterilizzeranno all’infinito la possibile operatività estesa della “loro” Bce soltanto per non rompere con Londra?
Il G-20 si riunirà nuovamente a Pittsburgh, negli Stati Uniti, il 24-25 settembre. Forse è già il caso di “salvare quella data” non per la sua agenda o per i suoi risultati attesi, ma soltanto per vedere come staranno le cose, tra governi e mercati, tra 100 giorni.