“Rieccolo” era il nomignolo di Amintore Fanfani, uno dei grandi economisti-premier della Prima Repubblica, “cavallo di razza” della Dc con Aldo Moro e Giulio Andreotti. Irriducibile – ma spesso poco rinunciabile – protagonista della scena politica, quando vi ricompariva lo faceva sempre da toscano combattivo, polemico, mordace polemico.
Era uno storico dell’economia della Cattolica, certamente diverso da Giulio Tremonti, giurista valtellinese cresciuto al Collegio Borromeo di Pavia; e dal romano Mario Draghi, macroeconomista allevato al Mit di Boston. Il primo ha certo il gusto della battuta pungente che esaltava Fanfani, con il quale – chissà – Tremonti condivide più di un punto di vista di fondo: la sua parabola “colbertista” e “anti-mercatista” lo ha condotto a ritrovare quell'”economia sociale di mercato” di cui Fanfani è stato uno dei teorici e pratici più insigni nella grande famiglia cristiano-sociale europea.
E mentre oggi la “sozialmarktwirtschaft” rischia di essere ridotta a feticcio culturale (se ne fa ormai ritualmente scudo un liberista parzialmente pentito come Mario Monti), il Governatore della Banca d’Italia è invece l’unico a non aver mai rinnegato il primato irreversibile del capitalismo finanziario globale di mercato come fondamento dell’economia, col rifiuto di ogni dimensione “pubblica” o “nazionale” e con la netta preferenza accordata al principio socioeconomico della concorrenza rispetto alla solidarietà.
Non solo per questo, a cadenze periodiche e ravvicinate, Draghi e Tremonti si accapigliano: come questa nota settimanale ha puntualmente segnalato, augurandosi sempre che il loro contrasto riuscisse infine “sano”, produttivo per la soluzione delle crisi. Invece: “rieccoli”, sempre più – al di là dei riflessi mediatici – con l’aria dei “cavalli di razza” impazienti di misurarsi agli albori di una possibile “Terza Repubblica”, oltre il berlusconismo.
Nei giorni scorsi Draghi ha confermato un regresso atteso del 5% per il Pil italiano nel 2009, si è augurato una tenuta dei consumi e riforme strutturali per il mercato del lavoro. Tremonti lo ha zittito in senso letterale: la Banca d’Italia la smetta almeno fino a settembre con le raffiche di stime, che alla fine contribuiscono oggettivamente a mantenere un clima di sfiducia. Questa volta il premier Silvio Berlusconi si è apertamente schierato a fianco di Tremonti: «Basta con i catastrofismi».
Draghi ha un po’ accusato il colpo e, nel weekend, ha aggiustato il tiro. Dalla sede significativa del Financial Stability Board, il suo “scranno” internazionale, che lui stesso forse considera il suo primo “job” rispetto alla Banca d’Italia, il Governatore ha parlato di «segnali di miglioramento in un’economia che resta fragile» e ha riconosciuto che «non è il momento di fermare gli incentivi pubblici, non è ancora l’ora di un exit-strategy».
Qui la frenata è apparsa netta, ai limiti dell’ammissione di errore. Appena dieci giorni fa – per di più parlando in Germania – Draghi aveva invitato tutti gli “addetti alla crisi” a «iniziare a pensare a strategie di uscita dalle semplici politiche espansionistiche, per gestire la riduzione dei debiti pubblici». In ogni caso è il numero uno di Via Nazionale ad aver apparentemente perso il timing degli interventi: prima eccessivo ottimismo, troppa teoria benevola dell'”incidente di percorso” per un’opinione pubblica ancora spaventata da una concretissima recessione figlia della crisi finanziaria; poi troppa fredda statistica per un establishment politico-economico che sta facendo l’impossibile per ripristinare un minimo di fiducia nei mercati (e l’aumento del tasso di risparmio – cioè dei dollari stipati sotto i materassi – negli Stati Uniti resta alla fine un segnale problematico).
Se Draghi è parso in difficoltà sul suo terreno – quello tecnocratico – il difficile rapporto con Tremonti (e per la prima volta con Berlusconi) sta ormai assumendo contorni squisitamente politici: di livello superiore rispetto agli scontri dei mesi invernali, quando sul tavolo c’erano l’ingresso del Tesoro nelle banche attraverso i Tremonti-bond, le nomine alla direzione generale Bankitalia e la visibilità internazionale nei G-20 o nei G-8. Anche ora siamo alla vigilia di un G-8, anzi “del” G-8 di L’Aquila, che il premier aveva già schedulato come suggello di questa fase del suo governo e che ora in molti reputano invece decisivo per la sopravvivenza politica stessa dell’Esecutivo e dello stesso Berlusconi.
Ed è stato affrontando di petto questo tema che il ministro dell’Economia ha ribattuto – in un’intervista televisiva domenicale – ancora una volta colpo su colpo a Draghi. Con meno veemenza tecnica, ma con più durezza politica. «Un governo tecnico? Sarebbe forte come uno yogurt». Una stoccata diretta al Governatore, indicato da molti come il vero candidato a un classico “esecutivo del presidente”: se Berlusconi – sotto pressione mediatica interna e internazionale – non dovesse resistere e se la larga maggioranza di centrodestra dovesse registrare fratture (tra Pdl e Lega) o l’evoluzione del Pd dovesse “liberare” voti al centro (dove Udc e Idv sono in apparente rafforzamento).
E l’unisono “anti-crisi” tra Berlusconi e Tremonti (nei due sensi) ridà al titolare del Tesoro un profilo che invece ha sempre un po’ sofferto quando il duello con il Governatore era esclusivamente tra “istituzioni finanziarie”. In concreto: se Tremonti al G-8 si fosse presentato come teorico dei “legal standard”, Draghi sarebbe stato in vantaggio, potendo giocare un ruolo più operativo nell’assestamento della nuova vigilanza bancaria internazionale.
Se invece – come in parte sta avvenendo – Tremonti è una sorta di “vicepremier”, depositario delle chiavi delle politiche economiche nazionali e (per la sua parte) europee, allora la sua voce risuonerà doppiamente forte: sarà quella di chi ha firmato una manovra d’estate molto concentrata sulle imprese (con 300 milioni assegnati in anticipi al riassetto industriale Fiat) e di chi garantisce nell’immediato la continuità della leadership governativa del centro-destra – a cavallo tra Lega e Pdl – qualunque sia il destino politico e personale di Berlusconi. Con tutto questo, nessuno può certo assegnargli in anticipo la vittoria nella corsa tra i due “cavalli di razza” del momento nell’arena politica italiana.