Un emendamento al decreto anti-crisi per varare lo “scudo fiscale” e un decreto ministeriale dell’Economia per introdurre la scontabilità in banca dei crediti delle imprese verso la Pubblica amministrazione. Finiti gli effetti speciali del G-8 (non del tutto virtuali, se hanno raffreddato l’atmosfera politica interna), la politica economica torna a dominare l’agenda di un’estate tutt’altro che vacanziera. E il ministro Giulio Tremonti – il “supersherpa” dell’Aquila, come paladino dei “Global legal standard” sui mercati finanziari – resta protagonista: nei panni che ormai da un quindicennio si è ritagliato addosso: quello di continuatore di Jean-Baptiste Colbert, il ministro del Re Sole, inventore dello moderno “stato fiscale” e del dirigismo economico francese tuttora nel Dna della politica economica europea.

L’operazione “scudo” – la terza lanciata da Tremonti dopo quelle del 2001 e del 2003 – questa volta sembra alzare l’asticella dei suoi obiettivi, il cui raggiungimento questa volta andrà probabilmente valutato in termini qualitativi e non solo quantitativi. I due precedenti hanno registrato un buon successo, facendo emergere un’ottantina di miliardi di capitali italiani all’estero e portando un paio di miliardi di incasso per l’Erario.

Ma i provvedimenti sono stati criticati, non del tutto scorrettamente: l’aliquota bassa di “penale” (il 2%) e la possibilità di mantenere comunque i “capitali sdoganati” presso gli intermediari esteri, hanno oggettivamente “appiattito” il profilo politico-finanziario della manovra. In breve: sono parsi il classico condono “win-win” tra i cosiddetti “ricchi” e un classico governo di centro-destra. A metà 2009, il Berlusconi IV e il suo super-ministro economico verrebbe meno alle loro aspirazioni di definitiva legittimazione se si limitassero a raccattare qualche miliardo “a buon mercato” per puntellare le prossime Finanziarie. Le attese sull’aliquota (6-7% quella ordinaria, 5% quella agevolata, legata alla sottoscrizione di titoli per la ricostruzione dell’Abruzzo) sembrano già promettere una “mano politica” più ferma, meno condiscendente sul piano finanziario con chi ha accumulato capitali all’estero (diversa sarà ovviamente l’analisi della sanatoria sul piano legale-penale).

Ma all’indomani della Grande Crisi, l’obbiettivo vero di un ministro come Tremonti non può essere che “scuotere l’albero” dei flussi globali di capitali. Ancora in sintesi: questa volta non basterà “legalizzare” i capitali italiani; bisogna farli tornare concretamente in Italia. Lo scenario non è sfavorevole: i “paradisi fiscali”, sotto assedio, stanno negoziando una resa condizionata. E per l’Italia il “deserto dei Tartari” da cui disseppellire centinaia di miliardi di euro è appena al di là delle Alpi: sul lago di Lugano, a Ginevra, a Zurigo. Poco più in là c’è il Lussemburgo, che tra l’altro fa parte della Ue e dell’Eurozona. Le stime sul “tesoro” si muovono a cavallo dei 500 miliardi di euro. Gli stessi Usa di Barack Obama hanno battuto i pugni sul tavolo di Berna, per il ruolo della banca-stato Ubs.

Tremonti non è l’inquilino della Casa Bianca, ma una credibilità politica internazionale “antimercatista” ormai ce l’ha. E lo “scudo italiano” potrebbe essere pilota nell’Unione europea e rappresentare il trampolino perché Tremonti assuma la presidenza dell’Eurogruppo, lo strategico tavolo dei ministri economici di Eurolandia. Uno “scudo fiscale” nazionale copiato da altri, può essere una exit strategy compatibile con il mantenimento di un livello accettabile di internazionalizzazione dell’economia, anche se ridotto rispetto alla globalizzazione, difesa tuttora in misura fanatica dai “negazionisti della crisi”.

Però l’operazione-Tremonti deve raggiungere i suoi target veri: riportare i capitali nelle banche italiane (almeno in termini di depositi stabili, indipendentemente dalla forma tecnica); favorire il loro dinamismo in termini di investimenti finanziari e reali; dirottarne una parte verso progetti pilotati in senso lato dallo Stato, ad esempio intermediati verso le infrastrutture dalla Cassa depositi e prestiti. Oppure dalla Sace. La “vecchia” Società di assicurazione del credito all’esportazione, controllata dal Tesoro, è infatti in fase di avanzata mutazione strutturale-strategica. È già stata menzionata dal primo decreto anticrisi come veicolo per il sostegno del credito alle imprese e il suo ruolo prospettico è sempre più delineato dal provvedimento sui crediti vantati dalle imprese verso la Pubblica amministrazione.

La Sace, infatti, sta valutando l’acquisto della Factorit, la società di factoring delle Popolari, specializzata appunto nello sconto “pro soluto” di crediti. L’Economia sta ora valutando un maxi trasferimento dei crediti delle imprese verso la Pa (che sarà possibile certificare entro la fine del 2009) verso il sistema bancario, e già questa si profila come una “manovra colbertista” niente affatto piccola. Significa che grandi banche private e quotate in Borsa (come lo sono Intesa Sanpaolo, UniCredit, Mps, Ubi, Banco Popolare, etc) di fatto si faranno carico di crediti che lo Stato tarda a onorare alle imprese, a condizioni di fatto fissate dallo Stato stesso. Ma è probabile che una parte dell’operazione venga gestita direttamente dalla Sace (cioè dal Tesoro): ma in questo caso il sistema bancario sarebbe comunque chiamato a rifinanziare la “banca Sace”, che si affiancherebbe alla “banca Cdp”.

L’unica certezza – ma del tutto ininfluente – è che i commentatori liberisti si metteranno a strillare ideologicamente contro il “male assoluto” della ristatalizzazione del credito. All’economia (delle imprese e dei loro dipendenti) e all’Economia (cioè al Governo) interesserà solo verificare se l’idea e le soluzioni tecniche funzioneranno sul piano anti-crisi e sul terreno del rilancio. Se il test sarà positivo, Tremonti avrebbe tutti i meriti per ottenere dall’Unione quel riconoscimenti che il gioco politico puro ha negato a Mario Mauro per il Parlamento europeo.