Il piano Risanamento si accinge ad affrontare domani il giudizio del Gip di Milano, dopo che in nottata il consiglio d’amministrazione ha dato via libera a un riassetto finanziario da 500 milioni e ha nominato presidente di garanzia Vincenzo Mariconda (un avvocato milanese che ha insegnato anche alla Cattolica).
L’amministratore delegato di Intesa Sanpaolo – Corrado Passera – ha riaffermato ancora pochi giorni fa in un’intervista di considerare il bilancio di Risanamento in equilibrio: con il valore degli attivi ancora superiore al grosso debito – bancario e obbligazionario – accumulato (3 miliardi di euro nelle aziende operative, che salgono però a 4 ricomprendendo le holding familiari, a loro volta proprietarie di parte delle proprietà non italiane). La Procura di Milano non è di questo avviso, ha denunciato lo stato di insolvenza del gruppo e ha chiesto entro domani un progetto di sostanziale rafforzamento patrimoniale, accompagnato da un ricambio effettivo al vertice manageriale di Risanamento. Una settimana di trattative serrate tra le banche e Zunino ha maturato un passo che conta di soddisfare i magistrati di merito ed evitare il fallimento.
I grandi creditori bancari (tra i quali Intesa, UniCredit e Popolare di Milano) sono pronti a iniettare almeno altri 500 milioni in Risanamento, in forme tecniche (principalmente un aumento di capitale e prestito obbligazionario “convertendo”) che toglierebbero all’immobiliarista il controllo del suo gruppo. E per la guida operativa di Risanamento (che in portafoglio a Milano ha progetti di rilievo urbanistico – anche in vista dell’Expo 2015 – come l’area di Santa Giulia e quella ex Falck) circolano già importanti nomi di garanzia. Ieri ha fatto la sua comparsa sulla scena anche Luigi Roth, presidente di Fondazione Fiera Milano e Terna, conoscitore profondo della Milano dei grandi lavori e storico personaggio- interfaccia tra economia e istituzioni
Il precedente più illustre – in una lunga storia di crisi e riassetti – è quello del gruppo Ferruzzi-Montedison: nel ‘93, schiacciato dai debiti accumulati nelle fusioni e acquisizioni sfociate nell’operazione Enimont – il gruppo Ferfin fu preso in cura da Mediobanca e affidato alla presidenza di garanzia di Guido Rossi. Con un’operazione di abbattimento delle perdite e di ricostituzione di capitale (anche grazie alla conversione dei debiti) il suo controllo fu tolto alla famiglia Ferruzzi e venne assunto dalle banche che ne curarono la guarigione di bilancio (contenendo anche le proprie perdite) e l’evoluzione strategica (la rinascita di Edison ne è stato uno dei risultati più importanti). Con un difficile “concordato stragiudiziale” Ferfin evitò così sia il fallimento sia il commissariamento da parte del ministero dell’Industria (allora sotto il regime della “legge Prodi” del ’78, oggi sotto quello della “legge Marzano-Parmalat” del 2003). Il suo crack ebbe pesanti seguiti giudiziari (di più: Raul Gardini e il presidente del’Eni, Gabriele Cagliari, morirono suicidi) ma non direttamente innestati nella crisi aziendale, quanto piuttosto negli intrecci tra politica e affari scoperchiati dalle inchieste di Tangentopoli.
Lo scenario alternativo è quello del crack Parmalat (più significativo del caso più recente di Alitalia): il gruppo fu commissariato, i piccoli azionisti e obbligazionisti persero tutto, l’azienda si riprese ma non ritrovò poi una collocazione strategica; le banche e i banchieri (oltre a Calisto Tanzi e ai manager di Collecchio) furono oggetto di dure inchieste e oggi numerosi sono sotto processo a Parma. Se la giustizia deve seguire il suo corso è chiaro che l'”esito Parmalat” (determinato non solo dalle malversazioni di proprietà e management, ma anche da comportanti non corretti e coerenti da parte del sistema bancario) è stato traumatico per tutti: anche per la credibilità del sistema-paese (prima di Enron e poi di Gm, Chrysler e Lehman Brothers, Parmalat è stata il simbolo della “malafinanza” a livello globale).
Quindi, prescindendo dall'”atto dovuto” dei magistrati, una “scommessa ragionevole” sulla messa in sicurezza di Risanamento non può che essere guardata con favore: la Procura stessa, del resto, è intervenuta con un “ultimo avviso” alla società e alle banche perché accelerino un turn around, non perché certifichino un fallimento. Questa “piccola nota” non cambia dunque idea: sarebbe un errore per tutti dar spazio alla soggettiva “voglia di fallimento” di qualcuno, corrispondente all’oggettivo dubbio di altri sull’opportunità di mantenere in vita una società immobiliare in forte difficoltà. L’azione penale (obbligatoria) per colpire le (eventuali) responsabilità dei singoli ha sempre aperta davanti a sé una strada che può non incrociare i tentativi “civilistici” di sostenere e rilanciare un pezzo di economia reale. Tentativi che devono essere tuttavia essere seri e tempestivi.
La permanenza di Zunino nel consiglio di Risanamento, la mancata designazione di un amministratore delegato, il preannuncio dei legali di una richiesta di rinvio davanti al Gip sono, in questo senso, accettabili solo come segnali inevitabili di cautela alla vigilia di un’udienza giudiziaria “al buio”. Se invece sono il combinato disposto della sfiducia preventiva di banche ed establishment milanese sull’esito del tentativo e di una difesa “giapponese” dell’impero in dissesto da parte di Zunino, allora il crack Risanamento rischia di essere il primo vero “bombardamento” della Grande Crisi sul suolo italiano. E il peggior inizio di un autunno decisivo per l’Azienda Italia.