Dopo aver statisticamente rilevato che il costo della vita nell’Italia del Sud è mediamente inferiore del 16,5% a quello del Nord, la Banca d’Italia ha ridato evidenza a un altro gap macroeconomico resistente tra le due Italie: quello dei tassi d’interesse praticati dalle banche a imprese e famiglie (per i mutui casa). Il differenziale aggregato, nel primo trimestre 2009, raggiungeva l’1% (tra il 4,9% della Puglia e il 3,9% del Piemonte) e oscillava in media attorno alo 0,5%.

La doppia pronuncia di Via Nazionale (la prima, peraltro, contenuta in un cosiddetto “studio occasionale”) è avvenuta mentre il Governo ha – faticosamente – messo in cantiere il “piano Sud” (e mentre una “questione meridionale” squisitamente politica ha agitato il Pdl). E se il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, ha annunciato (un po’ a sorpresa) il decollo di una “Banca del Sud” assieme al Credito cooperativo, il ministro delle riforme leghista Roberto Calderoli ha rilanciato con forza l’opportunità di differenziare sia i salari (più bassi al Sud) che i trattamenti fiscali (meno Irpef al Nord, meno Ires al Sud) tra diverse aree del paese.

Scontata la registrazione dei “no” del sindacato e anche della Confindustria, è invece ancora tutt’altro che chiaro – parlando in stretto gergo giornalistico – “chi vuole cosa” e “chi sta con chi” su un terreno che – alla svolta della recessione – promette veri riequilibri politico-economici. Ora gli economisti del Governatore Mario Draghi hanno oggettivamente fornito argomenti a chi – come Calderoli e la Lega Nord, anche per ragione di prospettiva politica – vuol dare flessibilità strutturale all’economia italiana (anche se la Confindustria preferirebbe introdurla per i salari a livello aziendale e non territoriale).

Sull’altro versante, le statistiche creditizie individuano un quadro di immutata “gabbia creditizia” di svantaggio – sul piano dei servizi finanziari – per le imprese che operano nel Mezzogiorno. Via Nazionale monitora da sempre lo scacchiere: già nel ’92 uno studio firmato da Riccardo Faini (il super-consulente di Tommaso Padoa Schioppa al Tesoro, prematuramente scomparso nel 2007) e da Giampaolo Galli (oggi direttore generale della Confindustria) svolgeva riflessioni problematiche e attualissime a quasi un ventennio.

Il “paper” (Finance and development: the case of Southern Italy) traeva conclusioni non positive sull’esperienza della Cassa per il Mezzogiorno e in generale sulle politiche di sviluppo “via intervento pubblico”: anche quelle realizzate attraverso gli istituti di credito speciale, cioè per circuiti formalmente bancari, ancorché statali nella proprietà e burocratici nelle procedure operative. L’obiettivo mancato, secondo gli allora giovani economisti di Via Nazionale, era stato quello di rilanciare la produttività dell’imprenditorialità del Sud e di spezzare la spirale viziosa che rendeva storicamente l’impresa meridionale più rischiosa e quindi meno meritevole di prestiti a tassi competitivi di mercato. I fondi pubblici – anche quelli transitati attraverso i finanziamenti agevolati – avevano “inquinato” il sistema finanziario meridionale: non solo sul fronte delle imprese finanziate, ma anche all’interno del settore bancario.

«Le diseconomie operative degli intermediari – scrivevano allora Faini e Galli – si sommano con effetto negativo alla loro inefficiente funzione allocativa». A quell’epoca il differenziale Nord-Sud tra i tassi sui prestiti era ancora superiore ai due punti. E le parole sugli intermediari meridionali erano già più di una profezia: il sistema delle Casse di risparmio del Sud (dalla Puglia, alla Sicilia, alla Calabria) era già crollato, mentre i due Banchi (Napoli e Sicilia – che erano formalmente “istituti di emissione” ancora nell’Italia unita all’inizio del Novecento) erano a un passo dal dissesto. Oggi Banconapoli è una semplice rete locale di Intesa Sanpaolo, il Banco Sicilia lo è di UniCredit (dopo essere transitata da Capitalia) e le Casse meridionali sono all’interno del gruppo Ubi Banca.

La miriade di istituti privati proliferati in Sicilia (anche sulla base di una competenza di statuto speciale sugli sportelli) sono stati salvati con esiti vari in prevalenza dalle Popolari del Nord: e non sempre eliminando del tutto la pressione-infiltrazione da parte della criminalità organizzata. Anzi: anche oggi un direttore di filiale al Sud (talora obbligato a essere poco attento sull’origine della liquidità che viene depositata), mette sempre in conto richieste forzate di credito da parte della malavita.

Lo studio del ’92 prefigurava già in ogni caso come oggettivamente peggiorativa la situazione del “southern banking”: con l’assorbimento nelle banche del Centro-nord si sarebbe fatta sentire di più la cosiddetta “asimmetria informativa” e quindi l’assenza di mercato. In concreto: banche più lontane dall’impresa meridionale sarebbero state ancora più rigide nel “razionare” il credito nell’area e avrebbero rafforzato la tendenza a prelevare risparmio senza ritornarlo sotto forma di credito. La Banca d’Italia dei primi anni ’90 (guidata ancora da Carlo Azeglio Ciampi) guardava ancora con qualche fiducia all’integrazione di Eurolandia e a nuova offerta di servizi bancari da parte di banche estere: queste, invece, arrivarono soprattutto per riempire di derivati le amministrazioni locali del Sud (e le grandi banche italiane si accodarono).

Oggi, di fronte all’aggravarsi dell’emergenza Sud e al pressing statalista della corrente meridionale del Pdl, Tremonti ha puntato su un’idea che sembra prendere atto con realismo della situazione sul capo e dell’esperienza. Il progetto di costituire una “banca del Sud” in partnership con le Bcc (un mondo privatissimo) riconosce che l’intervento pubblico non è finanziariamente sostenibile ed è a forte rischio-cattura da parte della politica (certamente dei meridionalisti del centro-destra, di cui Micciché, sottosegretario all’Economia, è uno dei leader). Dall’altro prova a far leva sull’unico sottosistema bancario meridionale rimasto vitale: quello del Credito cooperativo, ormai da un decennio saldamento integrato in un polo nazionale sempre più sinergico, rimasto solido durate la grande crisi.

È prevedibile che la “Banca del Sud” tremontiana sia una piccola cabina di regia pubblico-privato per trasformare fondi pubblici in credito privato attraverso una rete bancaria consolidata, capillare, professionale, motivata ma non ossessionata dalla preoccupazione dell’utile trimestrale come le grandi banche quotate. Le quali, detto per inciso, vengono messe sotto oggettiva pressione concorrenziale dal progetto di Tremonti. Probabilmente non mancherà chi ancora vedrà diffidenza verso Intesa e UniCredit, da sempre supposte più vicine al Pd o comunque ostili al centrodestra berlusconiano o leghista. Per questo sarà interessante osservare la reazione effettiva della Banca d’Italia. Che per ora non è giunta (forse perché è ancora aperto l’ennesimo contenzioso col Governo sulla tassazione dell’oro dell’istituto centrale). Ma non è certo una coincidenza che le statistiche di Via Nazionale accendano i fari sul problema cui Tremonti vuol dare una (sua) soluzione.