Dopo trent’anni un Governatore della Banca d’Italia ha per la prima volta accettato l’invito del Meeting. Se qualcuno si sorprenderà che l’abbia fatto Mario Draghi e non il cattolico Antonio Fazio, probabilmente non ha ancora compreso lo spirito autentico di Rimini.
Il banchiere laico e globalista che presiede il Financial Stability Board e compare a pieno titolo nelle “foto di famiglia” del G-20 dimostra di aver compreso che la Grande Crisi è sempre di più il Sessantotto della finanza. E quindi – ripreso l’aereo dal superesclusivo summit di Jackson Hole (a discutere “senza cravatta” con Ben Bernanke e Jean Claude Trichet) – Draghi sbarca alla Fiera di Rimini con un’onesta consapevolezza: depositatisi i polveroni economici, politici, culturali, il mondo riemergerà molto diverso, al di là delle ipocrisie di chi deve difendere (nascondere) il proprio malfatto e dei tentativi demagogici di chi vuole regolare partite di potere. Chi in questo mondo continuerà ad abitare non può permettersi di attendere fatalisticamente. E la “conoscenza” – come suggerisce la “headline” del Meeting 2009 – è la via obbligata.
«Perché non avete previsto il collasso dei mercati?», ha chiesto con aristocratica “nonchalance” la Regina Elisabetta agli élitari studiosi della London School of Economics. Ci si sono messi in decine e ci hanno messo mesi per provare a risponderle, finendo poi soltanto per scusarsi (e solo un po’). Che non era certamente quello che si attendeva la Regina, che in Gran Bretagna è, a modo suo, un simbolo della società civile.
Mercoledì alla Fiera di Rimini le parti saranno invertite. A porre le domande a Draghi – attraverso il filtro di Giorgio Vittadini – ci sarà “il popolo del Meeting”: non troppo diverso, alla fine, dalla sovrana britannica. Lei impegnata e curiosa per dovere tradizionale e istituzionale, loro per desiderio e missione. Entrambi accomunati dalla consapevolezza che nulla può essere indifferente a nessuno quando ostacola la promozione biunivoca dell’individuo nella società.
Ma quali questioni culturalmente fondate può porre il Meeting a Draghi? Il rischio – di questi tempi – è sempre quello dei questionari-pallottola, delle “dieci domande” con le quali provare a inchiodare l’avversario di turno. Il quale ha normalmente buon gioco nel sottrarvisi per manifesta assenza di buona fede intellettuale. Ma questo non è il gioco del Meeting, che non ha mai preteso di essere un tribunale, ma piuttosto un “think tank” che elabora in pubblico (in amicizia) le proprie acquisizioni culturali.
In pubblico, in buona fede, con impegno culturale, da Draghi ci si può attendere anzitutto un bilancio in prima persona degli “anni di Draghi”: un’epoca lunga, iniziata nel 1991 quando l’allora giovane economista del Mit (allievo di Federico Caffè e poi di Franco Modigliani) fu nominato direttore generale del Tesoro. Poi c’è stata la parentesi come vicepresidente esecutivo della Goldman Sachs per l’Europa, infine (dal 2005) l’incarico in Via Nazionale.
Draghi ha comunque partecipato da protagonista alle due grandi modernizzazioni degli anni ’90: la privatizzazione dell’Azienda-Italia (le grandi banche ma anche le grandi utilities) e la simmetrica trasformazione della “regulation” italiana in senso mercatista. Il “testo unico della finanza” firmato da Draghi nel ’98 è la cornice teorico-normativa dei collocamenti attraverso offerte pubbliche sul mercato di Credit, Comit, Bnl, Imi, Ina e Telecom. Ma lo è anche dell’Opa Telecom del ’99 e delle tre ondate di successive concentrazioni attraverso cui sono nate – sul mercato – UniCredit e Intesa Sanpaolo.
L’idea (ma i critici hanno spesso obiettato che di “ideologia” si trattava) era che anche l’Italia dovesse allinearsi all’evoluzione globale che avrebbe reso più efficiente – sui mercati – la mobilità dei capitali, premiato le imprese migliori, portato benefici ultimi non solo ai risparmiatori ma anche ai consumatori finali di beni e servizi. La finanza era vista come “avanguardia”, volano e infrastruttura di un progresso economico incentrato sull’informazione, sulla tecnologia, ma in ultima istanza sull’accesso: la virtualità della moneta e del credito e l’espansione infinita dei mercati attraverso le piattaforme di internet sembravano poter realmente consentire l’utilizzo migliore e più largo della concorrenza e dell’iniziativa personale, minimizzando i costi e rischi. Le speranze degli anni ’90 sono via via evaporate nel decennio seguente, quando l'”esuberanza irrazionale” dei mercati ha via via gonfiato le bolle, mentre governi e authority si sono ritrovati sempre più impotenti di fronte alla “clonazione esponenziale” dei mercati attraverso la finanza derivata.
Ma sarebbe troppo facile continuare a chiedere a Draghi: “Com’è potuto succedere?”. È invece più sfidante domandargli se – come studioso e come uomo di istituzioni finanziarie – crede ancora che la ricetta liberista abbia avuto un senso duraturo nell’uscita dal dopoguerra e dagli choc petroliferi della seconda metà del XX secolo. Al di là della svolta Thatcher-Reagan (molto connotata in termini politici), resta viva l’idea di una “one best way” capace di instaurare un’autentica “democrazia economica”? Oppure difenderla – contro l’evidenza dei massicci sussidi pubblici nel settore bancario – equivale a sostenere la tesi riduttiva dell’incidente di percorso”? Insomma: Draghi crede ancora fino in fondo (e perché) al Draghi-pensiero?
E riconnettere la finanza all’economia e l’economia e la società civile consente di porre proprio a un “cosmocrate” come Draghi un’altra domanda “alta”: “questo” mercato lasciato a se stesso ha dimostrato di non tutelare la libertà delle persone e la loro capacità di autodeterminare il proprio destino. Ora la domanda di nuova “governance globale” sembra però condurre verso la creazione di nuovi consessi tecnocratici, di sedi supernazionali dove, di fatto, le decisioni vengono prese senza contatto diretto con i parlamenti e, in sede ultima, con i cittadini. L’exit strategy dalla crisi porterà con se – dopo la perdita di risparmi, redditi e occupazione – anche quella di partecipazione politica. Com’è possibile coniugare l’esigenza di ridare stabilità a banche e mercati – come premessa per la ripresa economica – e la nuova volontà della società (e delle sue istituzioni politiche) di controllare ciò che sui mercati avviene?
Infine a un europeo educato negli Stati Uniti – e sempre trasparentemente ispirato dalle culture politiche economiche statunitensi – può essere prezioso chiedere se è vero o no che il mondo si avvia a essere un “G2” tra Usa e Cina; se davvero l’Europa vecchia e nuova, l’ex gigante sovietico, il calderone islamico, il “buco nero” africano sono “contenuti storici” tra le due parentesi ai lati del Pacifico.
PS: il Meeting è la sede dedicata (e non per la sua neutralità) per archiviare (almeno per un po’) i botta e risposta mediatici tra il Governatore e il ministro dell’Economia Giulio Tremonti.