I Tremonti-bond, da quasi un anno, sono la metafora dei rapporti e degli equilibri fra vari “poteri reali” dell’Azienda-Paese, sullo sfondo della crisi finanziaria e della recessione: il Governo e il Tesoro, la Banca d’Italia, il sistema creditizio, il mondo delle imprese.

Una settimana fa a Cernobbio Corrado Passera, aveva rimesso in discussione l’orientamento di Intesa Sanpaolo a richiedere aiuti patrimoniali statali sotto forma di obbligazioni speciali. A stretto giro, il ministro Tremonti gli aveva risposto duramente: «Chi rifiuta i Tremonti bond va contro l’interesse collettivo» (facendo un po’ il “verso” alla cultura aziendale ufficiale della banca milanese, dichiaratamente non ristretta alla redditività di breve periodo e peraltro concretamente testata nel salvataggio Alitalia).

Ma al Workshop Ambrosetti, il ministro dell’Economia aveva usato toni forti anche sul versante della finanza pubblica: «Per gli ammortizzatori sociali vi sono più quattrini di quanto vi possiate immaginare», aveva tagliato corto davanti a una platea zeppa di imprenditori. E sarà pure vero che i Tremonti-bond (quelli già sottoscritti dal Banco Popolare e quelli eventualmente in emissione da Bpm, Intesa, UniCredit e Mps) creeranno indebitamento, per di più ad alto rendimento da parte dello Stato: non andrebbero quindi a intaccare direttamente i deficit annuali e la destinazione delle risorse nel breve periodo a politiche sociali e di stimolo economico.

Ma da quando nel drammatico novembre 2008, Tremonti andò in tv con il premier Silvio Berlusconi e il Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi e lasciò filtrare la cifra minima di 20 miliardi per gli eventuali salvataggi delle banche, anche in Italia i timori sono costanti sul futuro del bilancio pubblico: come lo sono (e ormai ben più che semplici timori) quelli espressi quotidianamente da economisti e osservatori sull’effetto inquinante prodotto dalle centinaia di miliardi di dollari ed euro immessi da Governi e banche centrali per strappare al fallimento centinaia di banche sulle due sponde dell’Atlantico.

Tremonti quindi dovrebbe essere contento che le banche italiane – passate relativamente indenni dalla crisi della finanza strutturata – non bussino alla sua cassa. Se non lo è – obiettano i suoi critici – è perché dietro i suoi “bond speciali” si nascondono disegni politici (se non addirittura personali) di ritorno dell’influenza pubblica nel credito. Da un lato vi sarebbe quindi la realizzazione della filosofia anti-mercatista che è il brand politico internazionale di Tremonti; dall’altro vi sarebbero intenti più di puro potere: ridurre i forti condizionamenti sull’economia di grandi banche, mai vicine al centro-destra.

Non vi sarebbe dunque quella che invece è quasi certamente – e non potrebbe essere diversamente – una preoccupazione reale del ministro: le banche italiane – passate relativamente indenni attraverso il cerchio di fuoco della crisi della finanza derivata – resisteranno all’ondata recessiva? Le perdite da “titoli tossici” erano una minaccia grave: banche meno solide non colpivano solo i loro azionisti, ma anche il credito alle aziende loro clienti (fino ad allora sane). Ma se ora banche non in perfetta salute devono sostenere imprese in crisi (e quindi l’avvitamento dell’occupazione, del reddito, del gettito fiscale, ecc.) la partita è più difficile.

E il ministro dell’Economia – dopo aver ottenuto dall’Abi la moratoria sui crediti sollecitata a gran voce da Confindustria e altre organizzazioni imprenditoriali – ora torna a fare la sua parte sui Tremonti-bond: se tra qualche settimana (Dio non voglia) dovesse tornare il panico che l’anno scorso mandò in fumo il 75% del valore di Borsa delle grandi banche; se scatterà di nuovo l’equazione viziosa “banca che crolla in Borsa = banca fallita”, se torneranno segni di corsa agli sportelli, sia chiaro che il Tesoro è pronto da mesi a sostenere il settore. Invece le banche continuano a opporre un muro che non è chiaro quanto sia fatto di gomma o di cemento armato.

Negli ultimi giorni (Intesa Sanpaolo e Ubi Banca in testa) si sono tutte platealmente rifornite di liquidità sui mercati, approfittando dei “tassi zero” che hanno del resto favorito anche imponenti emissioni pubbliche di BoT e Btp. Le banche sembrano dire: non abbiamo alcun problema a trovare mezzi sul mercato, né quelli per finanziare il credito alle imprese, e neppure capitali utili a rafforzare il patrimonio (i bond in Intesa sono significativi per la Vigilanza in termini di “Lower Tier 2”).

Di più: è confermato che il “credit crunch” non c’è; ci sono (purtroppo) solo aziende che non hanno bisogno di prestiti. Di più ancora (tra le righe): siamo noi che – da operatori istituzionali – garantiamo l’assorbimento dei titoli di Stato di Tremonti, sostituendo l’assenza di domanda da parte dei risparmiatori privati, allontanati dal “tasso negativo”, appesantito dalle commissioni. Basterà questo minuetto misto di scacchi e poker a tranquillizzare Tremonti?

Curioso, intanto, che il ministro si ritrovi tatticamente un po’ più distante dal premier (che ha gettato un po’ di acqua sul fuoco della polemica anti-bancaria endemica) e un po’ più vicino al suo storico oppositore Mario Draghi. Il quale all’ultimo G-8 finanziario (preparatorio del G-20 del 24 settembre a Pittsburgh) ha ribadito che le banche devono a ogni costo migliorare i loro “ratio patrimoniali”: linea del resto ribadita dai governatori del G-10 che hanno avviato le modifiche di “Basilea 2”.

Non come chiedevano i presidenti delle Confindustrie di Italia e Germania (sospensione “tout court” delle procedure rigide nella concessione dei crediti alle Pmi), ma certamente in modo non gradito alle grandi banche: invitate a diminuire il “leverage” e l’esposizione sui mercati finanziari a scapito del credito all’economia reale. Quello che Tremonti vuol rilanciare in via “sussidiaria” al Sud attraverso una banca-rete fatta assieme alle banche di credito cooperativo (in concorrenza crescente con le grandi banche).

(PS: alla domanda se quelle tratteggiate sian “grandi manovre”, siano “politica fatta con l’economia” e viceversa, la risposta di chi ha scritto questo articolo è ovviamente sì, e naturalmente senza giudizi di valore. Se la domanda è invece: contano più queste o le evoluzioni metapolitiche di Gianfranco Fini o le lotte sotto-politiche attorno alla moralità pubblico-privata di Silvio Berlusconi o di Dino Boffo, questo lo dovranno decidere i cittadini, lettori ed elettori).