Ettore Gotti Tedeschi, appena nominato presidente dello Ior, ha mosso i suoi primi passi nel mondo della finanza come consultant della McKinsey. La più prestigiosa tra le case di consulenza strategica globale è stata pioniera nell’imporre modelli di analisi e decisione per qualsiasi entità organizzata operi in un’economia capitalista di mercato: anzitutto un’impresa produttrice di beni o servizi, ma anche un soggetto no-profit, un governo centrale o locale, un’authority indipendente, un’agenzia erogatrice di utilità pubblica, perfino un leader o un partito politico sul “mercato” elettorale della democrazia.
L’approccio strategico McKinsey (divenuto cultura imprenditoriale e manageriale consolidata) è in breve: cosa voglio produrre (qual è il mio “prodotto”)? Per chi (qual è il mio “mercato”)? Come (qual è la mia “tecnologia”)? E poi: chi sono i miei proprietari (tipicamente: shareholders) e che obiettivi hanno, per quale investimento? Chi sono i miei concorrenti? Chi sono i soggetti esterni con cui la mia organizzazione interfaccia (stakeholders)? La sintesi ultima è la risposta alla domanda: perché quell’entità esiste sul mercato? E dunque; why Ior? Perché una “banca del Vaticano”, una “banca del Papa”?
Il cambio della guardia al vertice dell’istituto e la chiamata di un banchiere internazionale con il background di Gotti Tedeschi pongono di per se stessi questa questione, al di là di altre letture, legate all’avvicendarsi dei Ponetefici e delle gerarchie vaticane. Il drammatico passaggio del crack Ambrosiano (ormai quasi un trentennio fa), l’ascesa e la caduta dell’arcivescovo Paul Marcinkus e la “lunga transizione” condotta con successo per un ventennio dall’economista milanese Angelo Caloia sono stati diverse risposte empiriche date alla stessa domanda.
La questione originaria, posta all’indomani del concordato con l’Italia del ’29 era la necessità di gestire i cospicui risarcimenti riconosciuti dallo Stato italiano. L'”Amministrazione speciale per le opere di religione” è dunque inizialmente un”asset manager”, un gestore patrimoniale professionale del Papa, monarca della neonata Città del Vaticano (oggi questo ruolo è affidato a una distinta Amministrazione del patrimonio della Santa Sede).
È nel 1942 che la Sede Apostolica decide di utilizzare parte di quel patrimonio per costituire un “Istituto” il cui statuto (cioè la dichiarazione strategica iniziale) affida il compito di «provvedere alla custodia e all’amministrazione dei beni mobili e immobili trasferiti o affidati allo IOR medesimo da persone fisiche o giuridiche e destinati a opere di religione e carità. L’Istituto pertanto accetta beni con la destinazione, almeno parziale e futura, di cui al precedente comma. L’Istituto può accettare depositi di beni da parte di Enti e persone della Santa Sede e dello Stato della Città del Vaticano».
È una “banca” vera e propria? Non del tutto, perché i “beni mobili immobili in custodia” non sono assimilabili tout court a “depositi” e le “opere di religione” non sono tecnicamente “crediti/investimenti”. L’idea di fondo – vista soprattutto con categorie sviluppate negli anni recenti – sembra essere più quella della “fondazione” che accumula lasciti e li fa rendere professionalmente sui mercati per erogare poi gli utili in attività di pubblica utilità come la lotta alla povertà o alle malattie, la ricerca scientifica, l’education, la tutela dell’ambiente o dei beni artistici (giganti in questo campo sono la Fondazione Cariplo o la Fondazione Gates). Qui la leva critica è quella dell’investitore istituzionale: la gestione del mix rischio-rendimento-liquidità nel lungo periodo.
Specifica appare d’altronde, nello statuto, l’idea che «enti e persona della Santa Sede» possano disporre di una loro banca "di transazione", situata nel territorio vaticano. Cioè che il Governo centrale della Chiesa abbia la proprietà e la totale supervisione su una banca presente nel network finanziario internazionale per muovere fondi. Se il Papa vuole accreditare una somma a un vescovo missionario deve poterlo fare direttamente e con strutture adeguate. Se al Papa (o al Segretario di Stato, a un qualsiasi ente vaticano) viene donato un patrimonio, questo deve poter essere ricevuto da una struttura adeguata e il complesso dei beni deve essere gestito con le tecniche cui si accennava in precedenza.
Attraverso una "banca", la Santa Sede può in ogni caso effettuare prestiti, anche indebitandosi (ad esempio concedere un mutuo per il restauro di una basilica, sostenere l’ampliamento di una struttura sanitaria, o assumere su di sé i rischi e le necessità di una diocesi che affronti uno sbilancio finanziario). Quindi: un po’ "fondazione", un po’ "banca commerciale"; un po’ "banca di sviluppo", un po’ "banca etica". Con l’obiettivo di contribuire alla stabilità e all’indipendenza finanziaria della Santa Sede attraverso una "intermediazione di carità": ricevendola, custodendola, facendola fruttare e redistribuendola secondo i voleri del Papa.
Lo Ior, d’altro canto, ha fatto notizia (o storia) nei casi in cui non ha sostanzialmente rispettato il suo mandato. Quando ha "accettato" beni che di fatto erano capitali da occultare (al fisco, alla magistratura, etc di altri paesi), comportandosi come una banca offshore di un paradiso fiscale. Oppure quando ha investito i propri "depositi" non con una logica di "redditività protetta" ma con quella di un’investment bank: per realizzare profitti speculativi in Borsa o per controllare la proprietà di aziende. Una di queste aziende era il Vecchio Banco Ambrosiano: l’intervento dello Ior rivelava tra l’altro l’intento di espandere il peso della Santa Sede nel sistema bancario italiano e internazionale. Il crack del Banco (costato 250 miliardi di vecchie lire al Vaticano) fu la "punizione di mercato" a una strategia non corretta, perché deviata rispetto a quella iniziale.
Non è, in fondo, casuale che a pochi mesi dalla pubblicazione dell’enciclica sociale "Caritas in veritate" – quando la Grande Crisi Finanziaria è ancora lontana dalla sua soluzione – la Chiesa rimetta in discussione il modello strategico del suo braccio bancario. E sarebbe sbagliato che la comunità dei fedeli (primi e principali "stakeholder") non seguisse l’evoluzione di questa particolare "esperienza ecclesiale" chiamata Ior. Continuando a sostenerla.