Non è andato sopra le righe, Giulio Tremonti, quando al G20 finanziario di Londra ha ripetuto a voce alta che attorno all’exit strategy della crisi bancaria (col pretesto di discutere dei super-bonus ai banchieri) si gioca non solo la vittoria contro la recessione, ma anche la difesa contro serie minacce alla democrazia globale. Né gli si può dar tutti i torti per il fatto che, da Cernobbio, ha nuovamente sfidato i liberisti irriducibili (zelanti forse oltre i limiti dell’ipocrisia), affermando che le banche (italiane) che rifiutano gli aiuti pubblici dopo aver tentennato un anno si muovono contro e non a favore degli interessi generali del paese. E non deve stupire la vicinanza oggettiva – a ben guardare molto stretta – tra il ministro dell’Economia e il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano: per il quale la crisi è ancora nel suo pieno, la disoccupazione non è un sintomo secondario ma principale e la “jobless recovery” (la ripresa senza creazione di posti di lavoro e rigenerazione del capitale umano) una prospettiva quasi più beffarda e atroce del recente “tsunami” distruttore di risparmi.

La crisi finanziaria scoppiata due anni fa e giunta al culmine nel settembre 2008 ha avuto tre esiti strutturali: massicci aiuti pubblici per puntellare un settore bancario in dissesto (4.100 miliardi di dollari sono le perdite mondiali stimate per difetto dal Fmi e il 31% del Pil è stato messo in campo nella sola Ue per sostenere il sistema bancario); un forte peggioramento dei bilanci statali; una recessione che forse eviterà la depressione, ma provocherà mutamenti permanenti nella geografia economica globale. Non è sorprendente, anzi: era del tutto atteso che il confronto da falsamente tecnico (come assorbire gli asset tossici, come rilanciare il credito all’economia reale, come muovere i tassi tra rischi di deflazione e timori di reflazione, eccetera) diventasse politico, anzi civile. E in fondo giova a chiarire le idee all’opinione pubblica che mentre operai licenziati occupano stabilimenti e sequestrano manager, i banchieri abbiano gettato la maschera, pretendendo di continuare a lucrare bonus multimilionari in dollari o euro pur guidando ora banche salvate, controllate o garantite dagli Stati, anzi: dai cittadini. In fondo, anche le banche italiane negli ultimi dodici mesi hanno goduto di una “garanzia di firma” da parte dello Stato: della certezza che (com’è avvenuto in concreto per il Banco Popolare) il Tesoro – cioè i soldi dei cittadini – sarebbero immediatamente intervenuti per sostenere i patrimoni assottigliati, per ridare fiducia a istituzioni in trincea sui mercati della liquidità.

Quello che Tremonti ha voluto ricordare non è tanto la sua pretesa di entrare via Tremonti-bond nel capitale delle banche italiane: è che il sistema bancario (italiano e internazionale) non può far finta di nulla e resistere all’esigenza – posta dai governi a nome della società civile – di porsi degli standard (non solo “legal”) molto concreti. Stipendi non palesemente fuori dalla realtà (come del resto le aspettative di profitto puramente finanziario sui mercati derivati); più attenzione alle imprese e quindi all’occupazione; più prudenza nel decidere quanto dell’utile va accantonato a patrimonio per rendere più sicura tutta l’attività bancaria a venire. Per un volta (per la prima volta, non a caso dopo il Meeting di Rimini) il Governatore della Banca d’Italia – presidente del Financial Stability Board – Mario Draghi si muove in parallelo: “Banche, ricapitalizzatevi”. Dimostrate a Tremonti (che ne sarebbe lieto) che ha torto, perché nuovo capitale ve lo sapete reperire sui mercati: presso investitori a cui sarà necessario rispondere forse più strettamente ancora di quanto sarebbe (o è stato) indispensabile con gli Stati.