I due ministri italiani dell’Economia che hanno affrontato la Grande Crisi hanno parlato entrambi, ieri, sui grandi quotidiani. E se Tommaso Padoa-Schioppa ha focalizzato il suo editoriale sui nodi della ristrutturazione bancaria ormai giunti al pettine di una politica e di un’opinione pubblica sempre più polemiche, anche il suo successore Giulio Tremonti ha riservato allo stesso tema i passaggi più qualificati in una lunga intervista.
È difficile decidere, leggendoli in parallelo, se siano più numerosi i punti di convergenza o più interessante la natura odierna delle differenze di vedute: certamente irriducibili fra il tecnocrate di Romano Prodi (economista della sinistra laica, allievo di Carlo Azeglio Ciampi in Bankitalia, Consob e Bce) e il superministro di Silvio Berlusconi, giurista-professionista del Grande Nord, da sempre in rapporto privilegiato con la Lega di Umberto Bossi. Ma un rinnovato confronto sul campo tra due diversi portabandiera liberali della cultura politico-economica italiana ha avuto di per sé un valore non episodico.
Ambedue si sono ritrovati a commentare la dura presa di posizione del presidente americano Barack Obama, che ha ruvidamente preteso indietro i suoi soldi (120 miliardi di dollari) dalle banche Usa salvate con gli aiuti pubblici e ha tuonato contro profitti e superbonus attesi già nei bilanci 2009 dei colossi di Wall Street.
Sia “Tps” che Tremonti sono limpidi nel riassumere l’origine e lo sviluppo dei grandi “bailouts”. «Era giusto salvare le banche? – si chiede Padoa-Schioppa sul Corriere della Sera – In condizioni normali la risposta è no. Se è cronicamente incapace di fare utili, qualunque impresa, anche se banca, deve uscire dal mercato […]. Il fallimento è un modo di uscire, non l’unico né sempre il migliore […]. Le condizioni del 2008, però, non erano normali: stava crollando non una banca, ma la funzione bancaria stessa […]. Se la moneta cessa di circolare e nessuno fa più credito a nessuno ogni economia basata sullo scambio crolla e ricostruirla è arduo. Il perdurare del panico avrebbe moltiplicato a dismisura le vittime innocenti: risparmi e posti di lavoro perduti. In quelle circostanze l’interesse a salvare le banche era generale prima che dei banchieri».
Tremonti, al Sole 24 Ore, sospende inizialmente il giudizio sul salvataggio delle «banche sistemiche». «Un’alternativa era certamente quella del “Chapter 11”: salvare la parte di finanza collegata all’economia reale, alle imprese e alle famiglie, e lasciare marcire gli asset marci». Il giudizio finale è però netto: «Credo anche che non sia giusto, generoso o corretto criticare quello che sotto la pressione degli eventi, è stato fatto nel paese epicentro della crisi. Le banche americane erano davvero sistemiche e c’era davvero il rischio che saltasse tutto». Per entrambi, dunque, c’è un dovere dello Stato a salvare le banche, che non è certo un diritto di banche e banchieri a essere salvati (soprattutto se – lo nota Tps – ci sono chiari segni di «cattiva gestione»).
Il ministro in carica, d’altronde, «sta con Obama» senza esitazioni quando la Casa Bianca «presenta il conto alle banche»: è un «punto di equilibrio tra il realismo finanziario e la pressione dell’opinione pubblica» ed è corretta «l’idea che chi è stato salvato con il denaro pubblico restituisca il denaro che ha ricevuto con il sovrappiù di benefici per il sistema».
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Mentre Tremonti tuona tuttavia una volta di più contro la fine drammatica del «mercatismo trionfante», Padoa-Schioppa pare più laico e "liberista" quando sottolinea: «Per il contribuente che lo paga, il salvataggio è per lo più un buon affare, non una perdita. Ciò che egli compera vale assai di più del bassissimo prezzo pagato ed è destinato a rivalutarsi. I giganteschi utili che la banca centrale americana ha appena annunciato ne sono la riprova. E le banche centrali devono sapere (ma qualche volta se lo dimenticano) che i loro utili sono destinati non a se stesse ma alle casse dello Stato».
Una punzecchiatura al Governatore (ultraliberista) Mario Draghi, cui “Tps” dovette cedere il passo (non senza qualche legittima sofferenza) nella successione ad Antonio Fazio? Forse. Di certo l’ex membro anziano dell’esecutivo Bce non è tenero con le patrie del capitalismo finanziario di mercato quando nota: «I salvataggi sono avvenuti in paesi orgogliosamente predicanti le virtù magiche della proprietà privata e del libero mercato: Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania, Olanda, non in Italia, dove le banche si sono rafforzate con capitali privati». Una rivendicazione di merito soprattutto per la vecchia Bankitalia vigilante "di lungo periodo" sulla stagione delle privatizzazioni e delle aggregazioni.
Tremonti è invece preoccupato di difendere l’offerta di «strumenti di patrimonializzazione» pubblici che «alcune banche hanno utilizzato», altre (Intesa e UniCredit) hanno «rifiutato lo stesso giorno alla stessa ora». È su questo versante che i due inquilini "liberisti" di Via XX Settembre tornano distanti, a ben vedere a parti un po’ rovesciate.
Padoa Schioppa difende ("da sinistra"?) l’autonomia dell’economia rispetto alla politica e allo Stato, la libertà del mercato finanziario di mantenere i suoi spazi e di trovare nuovi equilibri, naturalmente meritandoseli. E – sul tema sensibilissimo dei bonus ai banchieri – concorda che «azionisti, amministratori dirigenti» delle banche salvate avrebbero dovuto «perdere soldi e funzioni», ma avverte: «È da deplorare che ciò non sia sempre avvenuto. Ma nei casi in cui non è avvenuto la critica va rivolta al salvante più che al salvato. Spettava al potere pubblico distinguete tra continuità della banca e discontinuità della sua proprietà e del comando».
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Se a Padoa-Schioppa si potrebbe in verità credere se la "pulizia" avrebbe dovuto riguardare anche le authority di vigilanza, Tremonti riafferma ("da destra"?) la gravità straordinaria di quanto è accaduto e preannuncia una (necessaria, salutare) resa dei conti tra politica e mercato. E nel merito: «Si cono confrontate finora due idee. L’idea politica di una nuova Bretton Woods e dei nuovi legal standard contro l’idea tecnica dei Forum e dei Board». Nel mirino c’è dunque Draghi personalmente, ma Tremonti sottolinea: «Quella che in Italia è stata presentata come una polemica personale era ed è, in realtà, la contrapposizione tra due visioni del mondo».
E non mancano frecciate velenose: contro gli economisti ultra-liberisti che hanno continuato ad affermare che «quando una banca fallisce è un bel giorno per il capitalismo»; e contro il collega americano Tim Geithner (già capo della Fed di New York) che ai G20 ha rifiutato l’idea di trattati internazionali sulla nuova vigilanza finanziaria perché finirebbero nelle «lungaggini dei Parlamenti».
Rifiutando come «medicine scadute in partenza» le ricette tecnocratiche come la recente “Basilea 2 rivista”, Tremonti chiede al sistema bancario un radicale cambiarnento di paradigma: con il ritorno all’equivalenza “banchiere/direttore di filiale”. L’esatto contrario del banchiere-finanziere simbolo del global banking di Draghi: da cui, in fondo, ha sempre diffidato anche Padoa-Schioppa.