C’è stata ancora una buona dose di rivalità personale nella (non inattesa) intemerata anti-mercatista del ministro dell’Economia Giulio Tremonti all’inizio della sessione autunnale del Fondo monetario internazionale. L’attacco ai “bankers” che hanno ripreso a speculare sui mercati, a lucrare super-bonus, a offrire champagne a tutti a Washington ascoltato dall’Italia ha subito richiamato il duello infinito con il Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi: il quale, il giorno precedente, da leader del Financial Stability Board non aveva perso occasione per un’ennesima sortita decisamente mercatista («non c’è guerra delle valute, solo turbolenze», cioè: tutto va bene, almeno abbastanza; la grande crisi è finita, o almeno quasi).

Ieri ha poi – ancora una volta negli ultimi mesi – corretto il tiro, indicando nella Germania un modello di ripresa virtuosa valido anche per l’Italia. Ma si èsposto nuovamente a sospetti di incoerenza (e di opportunismo in funzione del rinnovo della presidenza Bce), perché se c’è stato un alleato fidato del governo Merkel nello scontro di civiltà politico-economiche su “stimolo versus rigore” – che da molti mesi contrappone l’Unione europea all’amministrazione Obama negli Usa – questo è stato proprio Tremonti, rigorista spesso perfino contro gli orientamenti del suo premier Berlusconi. E se oggi il ministro dell’Economia è il candidato in pectore alla guida di qualsiasi governo post-Berlusconi – in questa legislatura o nella prossima – è in virtù del suo europeismo praticato nell’exit strategy.

Un tempo non si dubitava mai su di chi fosse il merito di un bilancio pubblico sotto controllo o di un sistema bancario funzionante: era della Banca d’Italia. Oggi – su entrambi i fronti – il consenso (anzitutto dei banchieri nazionali) va in direzione esattamente opposta: il merito è del Tesoro. Ovvio che anche nell’autunno 2010, nella tana del leone del Fondo, Tremonti abbia voluto rimarcare il punto di uomo di Stato che sta riportando ordine sui mercati, che sta rimettendo in riga i banchieri: veri responsabili – nella visione tremontiana – della recessione in Occidente e delle nuove instabilità strutturali fa macro-aree geo-economiche.

Altro che “tutto va bene”, altro che “pace sulla terra”: le “guerre” ci sono eccome, ma il nemico non è la Cina (il cui leader Wen Jiabao è fresco reduce da un tour europeo che ha toccato anche Roma). Certo, uno dei nodi è lo yuan che non rivaluta secondo i meccanismi di mercato e quindi mantiene squilibrata la bilancia commerciale globale. Ma come chiamare la pretesa statunitense di far pagare al resto del mondo il prezzo di una ripresa che (qui sta forse “il problema”) non deve mettere in discussione l’ordine costituito geopolitico?

Ha scritto pochi giorni fa un ascoltato strategist italiano, Alessandro Fugnoli di Kairos : «Incapaci di affrontare seriamente e strategicamente i loro problemi di bilancio, gli Stati Uniti ricorrono al pilota automatico del dollaro debole e della monetizzazione e aggiungono in sovramercato un fervore populista di iniziative congressuali che richiedono al Tesoro dazi punitivi se la Cina non rivaluta. La Cina di solito non dà mai giudizi sugli altri, ma quando viene attaccata reagisce con estrema durezza. Più che il discorso vittimista di Wen (se ci fate rivalutare avremo disoccupazione e tensioni sociali incontrollabili) colpiscono le dichiarazioni di Yu Yongding, vicino alla banca centrale, che suggeriscono alla Cina di abbandonare il dollaro e l’America al loro tristissimo destino e all’inevitabile collasso. Yu, più libero di parlare di Wen, tradisce il disprezzo dell’élite cinese verso gli Stati Uniti, considerati incapaci di governarsi. È il disprezzo del pusher verso il suo cliente».

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Alla vigilia delle elezioni di mid-term, i mercati (soprattutto Wall Street) considerano l’annuncio della Fed sul cosiddetto “quantitative ease” una vera e propria cambiale: si sentirebbero traditi se Bernanke il 4 novembre – cioè a esito elettorale acquisito – comunicasse il rinvio del previsto riacquisto di titoli di Stato o se iniziasse su cifre molto inferiori a un consenso che si spinge fino a mille miliardi di immissione di dollari stampati per l’occasione. Ma sentite ancora Fugnoli: «Il presidente della Fed di Saint Louis ha fatto infatti notare con disagio che un “quantitative ease” da un trilione equivarrebbe esattamente al fabbisogno di bilancio del 2011. In pratica, l’intero deficit dell’anno prossimo verrebbe finanziato dalla Fed. Nemmeno in Venezuela o in Argentina hanno mai fatto queste cose».

 

D’altronde, «l’altra faccia della debolezza del dollaro è data dagli utili che le società americane conseguono all’estero in valute sempre più forti. L’accelerazione della caduta in prossimità del 30 settembre, fine trimestre, ha fatto pensare (maliziosamente) a una bella spinta agli utili che le società cominceranno a pubblicare fra dieci giorni. La Borsa ne prenderà atto con soddisfazione, gli elettori vedremo». Eccoci: Tremonti è un ministro “eletto” in un grande paese europeo che non è affatto soddisfatto dell’andazzo, che non vorrebbe vedere i banchieri sguazzare di nuovo in una gigantesca piscina riempita dagli Usa di phoney money, di dollari fasulli, del tutto non all’altezza del loro nome. Un totem che oggi incanta o spaventa molto meno di un tempo e certamente non il Dragone cinese. Anche se mette sicuramente in crisi l’Europa “rigorista” – e la sua moneta iper-solida – perché è obbligata a cercare altrove la propria competitività: ma non è il mix innovazione-produttività (cioè l’imprenditorialità più sana) la ricetta di una ripresa vera, strutturale?