Il termometro-Mediobanca torna a segnalare – con puntuale regolarità – l’aumento strutturale di instabilità nell’establishment nazionale. Poco importa che facciano cronaca le turbolenze al di sopra di Piazzetta Cuccia (nel difficile dopo-Profumo in UniCredit) o al di sotto: in Generali (dal cui presidente Cesare Geronzi è partita una nuova campagna contro le Fondazioni bancarie); o in FonSai, dove i soci francesi di Mediobanca – e delle stesse Generali – si sono già autonominati cavalieri bianchi del gruppo Ligresti.



Tutto questo continua ad avere come centro di amplificazione o compensazione la storica banca-centauro fondata da Enrico Cuccia, anche in episodi apparentemente minori. Nei giorni scorsi una Consob acefala e frenetica ha infatti bloccato l’emissione di un bond Mediobanca per l’assenza tecnica – nel prospetto – degli scenari probabilistici richiesti oggi dall’authority in funzione anti-rischio per il sottoscrittore. Un tempo non sarebbe successo: ma oggi anche un’obbligazione di un istituto iperpatrimonializzato e di permanente affidabilità per il mercato può finire sul tavolo arroventato – ad esempio – dallo scontro all’ultimo sangue tra Giulio Tremonti e Gianni Letta per la nomina del presidente Consob (e il possibile trasferimento dell’autorità a Milano: il che farebbe passare dal Tar del Lazio a quello della Lombardia il ruolo di giudice d’Appello).

Nel solco tradizionale di un ruolo a cavallo tra Stato e mercato, le tensioni dentro o attorno a Mediobanca operano in ogni caso in relazione biunivoca con quelle di un quadro politico apparentemente alla vigilia di una svolta. Ed è certamente vicina a un passaggio decisiva la vicenda del gruppo Ligresti, e ciò è altamente sintomatico. Fu l’ingegnere siciliano, all’inizio degli anni ‘80, a saldare un’intesa tra Cuccia e il premier Bettino Craxi: e l’ingresso di Ligresti nel patto Mediobanca fu di estremo rilievo nella fase delicatissima di privatizzazione della stessa Mediobanca, allorché la leadership di Cuccia (e del suo delfino Vincenzo Maranghi) furono poste duramente sotto pressione dall’Iri di Romano Prodi.

Non è neppure un caso che – trent’anni dopo – il gruppo Ligresti sia stato l’unico azionista italiano di UniCredit a dissociarsi pubblicamente dalla decisione di rimuovere Alessandro Profumo. Il “casus” fatale all’ex Ceo di Piazza Cordusio – com’è noto – è stata l’accondiscendenza verso la scalata morbida degli investitori libici. Ma quest’ultima ha fatto leva – in Italia – proprio sul “milieu” politico-finanziario cresciuto all’ombra del craxismo e personalmente capeggiato da Silvio Berlusconi.

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Ora il gruppo Ligresti – e il suo pilastro finanziario FonSai – sono in evidente difficoltà: la crisi ha colpito un polo assicurativo già appesantito (tra l’altro) da una forte esposizione nel settore immobiliare, terreno di gioco privilegiato del “patron” siciliano. FonSai – tutti ormai ne sono convinti in Piazza Affari e dintorni – sarà ceduta: per risanare la situazione finanziaria del gruppo Premafin, non da ultimo per ridurre l’esposizione creditizia della stessa Mediobanca. La famiglia Ligresti, dal canto suo, si ritroverà più libera di partecipare come un tempo a grandi progetti immobiliari: primi fra tutti quelli che stanno interessando l’urbanistica milanese in vista dell’Expo.

 

Un aperto interessamento per FonSai è già giunto dal gruppo Bolloré sotto forma di acquisti di piccoli pacchetti: oggetto di comunicazione Consob proprio al fine di rendere manifesto che il dossier è già assegnato e non sono attese (e tanto meno gradite) interferenze. E per ribadire il concetto, Bolloré si è affrettato negli stessi giorni a incrementare la sua quota nello stesso patto Mediobanca.

 

Il sistema assicurativo italiano si accinge quindi perdere una – anzi due – delle sue storiche compagnia: Fondiaria e Sai. A rilevare il polo – si dice – potrebbe essere Groupama, gigante cooperativo delle polizze francesi, entrato in Mediobanca stessa con Bolloré e altri soci europei all’epoca dell’autodifesa organizzata da Vincenzo Maranghi. Dietro le quinte – interessata almeno ad alcuni asset assicurativi italiani – vi sarebbe la stessa Axa: il campione nazionale francese, numero uno delle polizze in Europa.

 

Maturerebbe così una sorta di “armistizio preventivo” a beneficio delle Generali: nel cui azionariato e vertice i francesi sono ormai più di una quinta colonna. Bolloré è vicepresidente e la presidenza Geronzi è direttamente sostenuta dai soci francesi: ed è per dare risalto a questo momento che il banchiere romano ha approfittato del caso Profumo per attaccare le fondazioni bancarie. Che sono forti in UniCredit e possono condizionare a valle Mediobanca e Generali; che sono presenti in Piazzetta Cuccia (e guarda caso sul ruolo degli enti è intervenuto nel fine settimana il direttore generale della Fondazione Montepaschi, Marco Parlangeli); e hanno peso anche a Trieste: con Compagnia Sanpaolo, Fondazione Cariplo e Fondazione Crt.

 

In un articolo domenicale sul Corriere della Sera, Massimo Mucchetti ha infatti puntato il dito sulle anomalie potenziali di una situazione nella quale il vicepresidente delle Generali sia il candidato compratore di una compagnia concorrente, probabilmente per conto di altre compagnie estere, tra cui Axa da sempre vociferata di interessi ostili per le Generali. In ogni caso rischia di concretizzarsi a breve – da Oltralpe – la “vendetta” di Antoine Bernheim, gratificato comunque dalle Generali all’uscita del ricco e prestigioso titolo di presidente onorario.

 

È ovvio che un simile passaggio è più praticabile in assenza di regia politica da parte di un Berlusconi indebolito e – soprattutto – mentre il principale socio di Mediobanca è alle prese con un faticoso assestamento della governance. A ormai tre settimane dallo showdown su Profumo, le tessere del nuovo top management di UniCredit stanno andando a posto. Il nuovo Ceo, Federico Ghizzoni, è appoggiato soprattutto dalla presidenza tedesca di Dieter Rampl. Tra i due (probabili) direttori generali, Roberto Nicastro andrà con tutta probabilità a garantire il corpo della banca, i soci italiani (anche le Fondazioni) e la stessa Vigilanza della Banca d’Italia.

 

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A vantaggio di Sergio Ermotti giocherebbe invece la conoscenza effettiva della complicata esposizione del gruppo in asset problematici, in via di lungo risanamento. Fuori gioco – tra i tre “deputy Ceo” di Profumo – rimarrebbe così Paolo Fiorentino, che sconterebbe fra l’altro la forte sintonia con Geronzi all’indomani della fusione UniCredit-Capitalia; nonché un ruolo di “banchiere corporate” che sta diventando sempre più difficile interpretare: eguali problemi ha, in prospettiva, il “gemello” Gaetano Micciché in Intesa Sanpaolo.

 

L’UniCredit di Ghizzoni, in ogni caso, è già ripartita dall’ennesimo “lunedì di Tremonti”. L’amministratore delegato di Piazza Cordusio è stato infatti subito cooptato nel club informale dei leader di banche e Fondazioni che il ministro dell’Economia riunisce periodicamente a Milano. E che conferma il ritorno oggettivo – anche in Italia – di forti interdipendenze tra banche, istituzioni e politica. Il quadro in cui Mediobanca è nata e ha segnalato e condizionato i cambiamenti negli equilibri di potere reale del Paese. Tanto che è stato il giornale tradizionalmente “protetto” di Mediobanca – il Corriere dalla Sera – a rompere gli indugi, certificando il “cancellierato di fatto” di Tremonti in un governo a leadership declinante e senza più una chiara base parlamentare.