Non deve sorprendere che il milanesissimo vicepresidente-vicario-reggente della Consob, Vittorio Conti, si stia facendo paladino del mantenimento della sede della Commissione a Roma: le sue chance (non molte, ma non nulle) di risolvere a suo favore la lunga impasse per la successione di Lamberto Cardia al vertice della Commissione di Borsa, a questo punto, sono legate al tacito supporto di una struttura di funzionari spaventati dall’ipotesi di trasferimento a Milano.
Ipotesi tutt’altro che peregrina, allorquando il dossier Consob viene attratto ogni giorno di più in un pacchetto di “ristrutturazioni” di primo livello attese nel sistema istituzionale. E l’authority dei mercati offre un’opportunità d’eccellenza: simbolica e sostanziale allo stesso tempo nel togliere a Roma per dare a Milano un pezzo di potere reale nel paese.
Capita così che un economista della Cattolica come Conti, per anni capo dell’ufficio studi della Banca Commerciale Italiana, denunci la sua età, quanto meno politico-culturale: quella in cui (dagli anni Trenta fino agli anni Novanta dello scorso secolo) era definita la divisione del lavoro – e dei poteri – in un’Azienda-Paese abbastanza chiusa: a Milano stavano le “banche d’interesse nazionale” che controllavano Mediobanca ma erano controllate dall’Iri. E la maggiore holding statale era punto di raccordo romano con l’esecutivo e le forze politiche.
A Milano, Enrico Cuccia – ex funzionario dell’Iri e del Ministero delle Colonie – era il “dominus” del “capitalismo senza capitali”. A Roma il Governatore della Banca d’Italia di turno (da Donato Menichella a Mario Draghi passando per Carli, Baffi, Ciampi – non Fazio) era il garante del rispetto minimo degli standard di mercato e della vicinanza alla finanza euratlantica.
La giovane Consob (nata nel 1974) non ha potuto che inserirsi su questo sfondo: e con eccezioni positive (il politico bergamasco Enzo Berlanda o il tecnocrate europeo Tommaso Padoa-Schioppa) o punti di minimo (l’impresario do sale ciname capitoline Bruno Pazzi) si è scavata la sua nicchia nel panorama delle para-magistrature romane. Il lunghissimo mandato di Lamberto Cardia e la candidatura alla successione di di Antonio Catricalà (suo omologo in quanto magistrato amministrativo) sono le evidenze empiriche del lungo compromesso berlusconiano con l’establishment capitolino.
La contro-candidatura di Giuseppe Vegas (economista milanese, sottosegretario di Giulio Tremonti all’Economia) è segno invece di una dinamica federalista che fa il paio con la proposta di trasferimento a Milano della sede della Consob. Di più: apre la strada a un cambiamento effettivo di scenari, laddove lo spostamento giuridico del quartier generale della Commissione al Nord, porterebbe all’attribuzione al Tar della Lombardia della funzione giurisdizionale d’Appello per le deliberazioni Consob.
Un “vulnus” ulteriore al primato dell’establishment giudiziario romano, che ha nel Tar del Lazio (e quindi nel Consiglio di Stato) uno storico “Ghino di Tacco”: una forca caudina per tutte le controversie tra Authority di mercato (Consob e Antitrust in primis) e forze di mercato, che hanno a Milano il loro tradizionale baricentro. All’ennesima stretta per le nomine Consob (presidente e quinto commissario), il confronto tra il “rito ambrosiano” di Giulio Tremonti e il “rito romano” impersonato dal sottosegretario alla Presidenza Gianni Letta, si fa rappresentativo di un passaggio politico di lungo periodo.