Nove anni fa – all’inizio del suo terzo mandato al Tesoro – Giulio Tremonti lanciava una grande offensiva contro le Fondazioni bancarie. Puntava a riportarle sotto più diretto controllo pubblico (statale o federalista): sia per le nomine ai vertici, sia per l’utilizzo dei patrimoni (quelli liquidi e quelli ancora investiti in strategiche partecipazioni bancarie).

Tremonti giocava un po’ in proprio: come “treasurer” di Stato sempre a caccia di quattrini per il bilancio e la politica economica e come professionista milanese divenuto ministro a Roma, ma mai dimentico della centralità degli snodi finanziari settentrionali. Dietro di lui si muoveva un polo berlusconiano desideroso di avanzare in territori di potere politico-economico tradizionale appannaggio del centrosinistra e in particolare una Lega che aveva già individuato nelle potenti Fondazioni del Nord un target privilegiato per mettere a frutto crescenti risultati elettorali.

Dopo un biennio di scontro aperto tra ministro e l’Acri di Giuseppe Guzzetti (supportata anzitutto da Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà), la Corte Costituzionale assegnò alle Fondazioni una vittoria netta: il riconoscimento della loro autonomia statutaria come corpi sociali intermedi segnava la fine del tentativo tremontiano di riformare la legge Ciampi-Pinza, che imponeva a Stato ed enti pubblici locali di condividere alla pari con la società civile dei territori il governo delle Fondazioni.

Gli anni successivi, tuttavia, hanno dimostrato come quel passaggio politico si sia risolto in concreto tutt’altro che a svantaggio di Tremonti: il quale, significativamente, volle poi riconoscere l’errore di impostazione della battaglia anti-Fondazioni. È da quel confronto che ad esempio (ben prima che la crisi finanziaria travolgesse banche e mercati) è stato concepito e realizzato il rilancio della Cassa depositi e prestiti: “banca di sviluppo” cogestita da tesoro e Fondazioni, già oggi strategica per le politiche economiche tremontiane (infrastrutture, credito al Sud, housing sociale, ecc.).

È allora che Tremonti – misurandosi con le Fondazioni – ritaglia con più decisione il suo profilo “antimercatista”, temprato nella gestione politica dei crack Cirio e Parmalat: curiosamente contro Antonio Fazio, il banchiere centrale più antimercatista d’Europa. È comunque allora che il ministro matura l’idea che il sistema bancario non sia (o non sia più) una felice sottospecie globalista di grandi imprese quotate e votate alla “creazione di valore per gli azionisti”, ma un’infrastruttura-Paese, che deve tutelare i risparmi delle famiglie e far affluire credito e capitali alle imprese del Paese.

Posizione eretica rispetto al mercatismo globalista ancora all’inizio del decennio; posizione ormai quasi maggioritaria in Europa a tre anni dal deflagrare della crisi e dopo giganteschi salvataggi pubblici di banche e assicurazioni. Non ha quindi sorpreso che alla Giornata del risparmio – l’unico appuntamento annuale al quale il ministro parli assieme al Governatore della Banca d’Italia, al leader dell’Abi e a quello dell’Acri – Tremonti abbia lanciato una nuova offensiva di politica creditizia. 

 

Il preannuncio di una nuova aliquota fiscale doppia per i profitti delle banche non è una manovra tributaria, non va a caccia di prelievi extra per sostenere il rigore di bilancio. L’intenzione di tassare più pesantemente i cosiddetti “profitti speculativi” (cioè quelli realizzati con impieghi finanziari sui mercati) sarà anzi probabilmente accompagnata da un alleggerimento della tassazione sui profitti ordinari (cioè quelli realizzati attraverso l’attività creditizia caratteristica, di raccolta di risparmio e l’erogazione del credito alle imprese).

 

Prevedibilmente sarà una misura indiretta: sgravi sull’abbattimento in conto economico delle perdite su crediti, cioè agevolazioni alla pulizia dei bilanci bancari, anche in vista di Basilea 3. Dietro un apparente accorgimento tecnico di natura fiscale, Tremonti mette sul tappeto una vera e propria “riforma bancaria”: a vent’anni esatti da quella firmata da Guido Carli e Giuliano Amato, che aprì invece la grande stagione delle privatizzazioni, delle fusioni e acquisizioni e dell’internazionalizzazione delle banche italiane verso l’euro.

 

Cosa vuol dire disincentivare fiscalmente l’attività “speculativa” delle banche? Significa reintrodurre un paio di vincoli di portafoglio: verso l’erogazione di prestiti alle imprese italiane e, certamente, anche verso la sottoscrizione di titoli di debito pubblico. Ai mercatisti non piacerà di certo, esattamente come ai liberisti non è piaciuto neppure l’ultimo scudo fiscale, nella realizzazione del quale il governo ha deciso di “transare” con gli esportatori di capitali, a patto che un centinaio di miliardi di euro di risparmio “italiano” tornassero almeno legalmente nel perimetro del sistema-Paese.

 

Il modello finanziario implicito nella “riforma bancaria” tremontiana ha la stessa ispirazione da “dopo-crisi”: la finanza torna a essere banco-centrica perché quella mercato-centrica ha tragicamente fallito; le banche tornano a essere controllate della Fondazioni, in chiave infrastrutturale (con relativa meno enfasi sulla redditività e sull’aumento del valore dei patrimoni e con maggiore attenzione alla stabilità del sistema); le banche tornano a offrire sicurezza (più che profitti) ai risparmiatori e a rivolgersi alle imprese che abbisognano di finanza per la gestione e lo sviluppo (un’acquisizione strategica ci può stare; un’Opa ad alta leva attraverso un veicolo per spaccare un gruppo e rivenderlo a pezzi, no).

 

Implicita nel “deleverage” complessivo della finanza è anche la riduzione della redditività a breve: le obbligazioni bancarie – tornate a essere strumento di impiego di risparmio anche per la suasion tacita della Banca d’Italia – non possono rendere molto. Le banche d’altronde hanno ricominciato a remunerare i conti correnti (anche se nei “conti-deposito” i vincoli non mancano) e l’attività di credito alle Pmi ha costi elevati e una redditività meno pronunciata di quella garantita dai mercati, dove comunque il rischio si è rivelato spaventosamente più elevato di quanto si credesse.

«Su Basilea 3 continuo ad avere molte riserve», ha ribadito senza mezzi Tremonti alla Giornata del Risparmio, guardando il Governatore Mario Draghi. E la riforma bancaria “in nuce” nella tassazione “anti-speculazione” non è esattamente in linea con una ri-regolamentazione dell’attività finanziaria che cerca di salvare il salvabile dei mercati globali, che insiste sul fatto che le banche sono imprese come le altre, operanti su mercati come gli altri, con una materia prima (la moneta e il credito) che sono globali per definizione.

 

Invece Tremonti (non unico in Europa) ripropone il potere-dovere della politica di orientare l’attività finanziaria tenendo presenti valori (l’interesse nazionale) che il libero-mercatismo nega alla radice. Che il ritorno a una banking “cogestita” tra Stato e mercato, non più su base globale, sia una ricetta corretta per l’exit strategy dell’Azienda Italia non è dimostrato in partenza. Ma tra i dati di fatto vi è certamente la forza con cui il ministro dell’Economia propone una linea portante di politica economica in un momento in cui il Governo Berlusconi sembra aver perduto ogni capacità di iniziativa.

 

Se d’altronde la prospettiva di un governo di transizione è destinata a realizzarsi, difficilmente potrà prescindere dal consesso tecnico riunitosi in pubblico il 28 ottobre: Tremonti, Draghi, Guzzetti e il presidente dell’Abi. Giuseppe Mussari. Lo stesso giorno, la tradizionale assemblea annuale di Mediobanca (riunitasi per statuto nell’anniversario della marcia su Roma) ha ospitato uno show finanziario meno limpido ed entusiasmante: la consegna di un grande gruppo assicurativo italiano (FonSai) al gigante francese Groupama, con una mini-scalata di Borsa a opera del raider francese Vincent Bollorè.