In questa noticina si parla, quasi per regola, di banchieri. Per una volta – e forse non sarà sufficiente – è invece il caso di essere attenti ai bancari (e le riflessioni non saranno molto diverse da quelle applicabili a molti cugini del terziario: a cominciare dai giornalisti). Nel settore creditizio è iniziata una nuova stagione di grandi ristrutturazioni aziendali: il rinnovo del contratto nazionale occuperà prevedibilmente tutto il 2011. Il confronto tra Abi e sindacati è già molto duro: l’Assobancaria stessa ha avviato un piano di esuberi. E più che simbolicamente, il profilo di Sergio Marchionne si staglia anche su migliaia di agenzie bancarie e su centinaia di sale operative.

Il precedente riassetto industriale del credito si sviluppò a partire da metà degli anni ’90 e coincise con il lungo processo di privatizzazione e concentrazione, continuato anche dopo la nascita dell’euro. La tribù dei bancari – uno dei veri corpi sociale del Paese – ne uscì ridotta di un buon 10%, ma soprattutto mutò fisionomia. I “para-burocrati con sedici mensilità” – aristocrazia di un ceto medio – cominciarono a fare i conti con il mercato aperto: con azionisti privati che nominavano top manager incaricati di “creare valore”, di contenere i costi e promuovere i ricavi.

Le professionalità richieste cambiarono velocemente e radicamente: il bancario-prototipo (il direttore di filale o il dirigente intermedio) era un esperto di “affidamenti”, di valutazione e controllo del rischio di un prestito a un’impresa. La gestione finanziaria era affidata a tesorieri che operavano principalmente su circuiti interbancari non globalizzati.

La liberalizzazione della finanza ha comunque segnato l’avvento, in banca, di decine di migliaia di addetti commerciali: alcuni ancora interni alle filiali, altri esterni. Promotori finanziari e “mediatori creditizi” (quasi 200mila al giro di boa della riforma dello scorso luglio) hanno esternalizzato una parte di queste funzioni, mentre l’outsourcing di altre strutture organizzative ha portato molte figure “non finanziarie” fuori dal contratto bancario.

 

Per chi è rimasto allo sportello, in ogni caso, l‘imperativo professionale sostanziale è diventato “vendere “, o “far consulenza” in qualifiche più a valore aggiunto. Il bancario, in ogni caso, si è trovato a essere un costante addetto alla vetrina di un mercato in cui il rischio finanziario veniva strutturalmente diffuso grazie alla logica della cartolarizzazione. Una parte dei guasti della grande crisi sono nati anche in grandi banche commerciali, in cui i budget di vendita di “prodotti finanziari” (mutui, carte revolving, strumenti di risparmio gestito, perfino credito alle imprese) sono rimasti senza più una corretta valutazione del rischio nel momento in cui la banca stessa lo ri-esternalizzava.

 

Ora, con i bilanci ancora carichi di sofferenze e prodotti illiquidi e con i patrimoni assottigliati, le banche rimettono mano al costo del lavoro per tenere i conti economici sopra la linea di galleggiamento. I mercati propongono poco graditi “rendimenti zero” nel mare di liquidità che ancora tiene sotto terapia la ripresa. L’alternativa è la volatilità dei tassi greci o irlandesi quando una bolla locale scoppia. Quante decine di migliaia di bancari cinquantenni saranno espulsi in tutt’Europa per abbattere il costo? E quale logica industriale potrà sostenere un’ennesima “rupture” professionale nel settore?

Nessuna dubita che il giovane laureato europeo – già abituato a partire con redditi “low cost” – possa esprimere la stessa produttività e qualità professionale dei trentenni di quindici anni fa, ad esempio alle spalle del meno-che-quarantenne Alessandro Profumo al vertice di UniCredit. Però, a differenza di allora, quale spartito strategico dovranno interpretare non è chiaro. Anzi: il ritorno dell’economia reale come centro propulsore dell’economia, il declino (forse temporaneo) della Borsa e della finanza d’impresa, rendono nuovamente attuali le competenze spazio-temporali legate all’esperienza e ai territori.

 

Anche se nei prossimi dieci anni la missione corale del sistema bancario sarà l’adozione globale di Basilea 3, è assai probabile che il vantaggio competitivo starà invece all’estremo opposto: nella capacità di individuare sul mercato a uno a uno i clienti da affidare. Anche perché solo così una banca può ricreare attorno a sé un ambiente fertile per un nuovo sviluppo della banca stessa. Il taglio del costo del lavoro in banca è un vincolo: come per l’industria dell’auto nel mondo, come per la Fiat.

 

Ma il mercato di una banca italiana (europea) non è globale: i suoi ricavi, anzi, difficilmente prescinderanno dalla capacità di mantenere il suo “franchise” sulla clientela locale. Rottamare semplicemente i bancari “senior”, questa volta, potrebbe non essere la ricetta giusta. Abi, vertici della grandi banche e sindacati dovranno lavorare di molto di fantasia. Studiare una flessibilità per i vecchi bancari senza sganciarli dal sistema sarà più difficile che congegnare bonus e stock option.