Muovendo duri e reiterati attacchi all’Eni – nel vortice dei “file” Wikileaks sulle relazioni tra Italia, Usa, Russia, Libia – il Corriere della Sera ha fatto risuonare una campana dal timbro molto profondo nella storia contemporanea italiana. Quasi mezzo secolo fa, nell’estate del 1962, sulle stesse colonne del Corriere, era stato personalmente Indro Montanelli a colpire frontalmente l’ente: con una serrata inchiesta in quattro puntate contro il “fenomeno Mattei”, che aveva sconvolto i rapporti tra politica, economia, diplomazia nel primo ruggente quindicennio di vita repubblicana.

La borghesia industriale del Nord – per decenni dominante anche nel settore energetico – al culmine del boom alzava la voce contro l’Eni di Mattei, che incarnava l’ala più giovane e rampante dell’impresa pubblica. Un soggetto completamente nuovo nel sistema-Italia: radicato nell’esperienza della “resistenza cristiana” pilotata al Nord da personaggi come lo stesso Mattei e “Albertino” Marcora . Tutt’altra cosa rispetto all’Iri, sorta dopo la crisi del ’29 per compromesso tra il regime fascista e la borghesia laica che avrebbe poi partorito Mediobanca.

Nei dispacci Wikileaks, l’ambasciata Usa in Italia dice di sospettare che l’Eni abbia “giornalisti a libro paga” nel suo presunto accompagnamento dell’amicizia tra il premier italiano Silvio Berlusconi, il leader russo Vladimir Putin e il raìs libico Muammar Gheddafi. Montanelli, dal canto suo, negò sempre (anche pochi mesi prima di morire) che fossero stati gli azionisti del Corriere – e la finanza milanese a loro legata – a sollecitargli l’attacco a Mattei, l’uomo che aveva fondato Il Giorno e diceva di usare i partiti come taxi.

La prima firma del Corriere riconfermava invece la sua stretta curiosità giornalistica di tagliare i panni addosso all’italiano considerato ormai più potente in patria (aveva fatto eleggere il primo Dc presidente della Repubblica, Luigi Gronchi) e temuto all’estero: soprattutto dagli Stati Uniti che non tolleravano le sue incursioni di “petroliere senza petrolio” in Medio Oriente e in Urss, in concorrenza con le “sette sorelle” americane. Cento giorni dopo l’attacco di Montanelli, in ogni caso, Mattei moriva tra le fiamme del suo aereo esploso. E la definitiva “verità giudiziaria”, pronunciata più di quarant’anni dopo, non ha dubbi: si trattò di un attentato, probabilmente ad opera della mafia, al servizio di interessi esteri.

Rincorrere nel dettaglio il gioco delle analogie e delle differenze tra l’Italia dei primi anni ’60 e quella che entra sempre di più nel ventunesimo secolo (l’America e la mafia, il petrolio e gli schock economico-finanziari, i governi e i giornali italiani) sarebbe divertente. Ma è forse più utile rilevare – per ora soltanto rilevare – che la campana dell’Eni ha quasi sempre scandito ore decisive della storia repubblicana: spesso difficili da catalogare.

La morte di Mattei non coincise forse con la nascita del centro-sinistra di governo e con la nazionalizzazione dell’energia elettrica? Non fu forse l’affare Petromin a decidere nel ’77 la leadership di Bettino Craxi al vertice del Psi, aprendo la fase storica del paese che ha preceduto e preparato il quindicennio berlusconiano? Non c’erano forse top manager dell’Eni nella cabina di regia della P2, scoperchiata nell’81? Non fu il suicidio in carcere di Gabriele Cagliari nel ’93 a segnare (con quello di Raul Gardini) la settimana più drammatica di Tangentopoli? Nel mezzo c’è naturalmente molto altro e tutto il contrario.

In estrema sintesi, c’è la maggior “generazione di valore” finanziario (privatizzazioni e dividendi) che un’azienda pubblica abbia fornito in Italia al suo Stato-azionista. C’è una scuola di management che nell’Azienda-Italia è ormai rimasta unica, mentre Olivetti, Comit, Pirelli appartengono al passato.. C’è un gruppo che – “sbagliando” – si è accollato i problemi industriali e occupazionali altrui: fin da quando il sindaco di Firenze Giorgio la Pira chiese a Mattei di acquistare il Nuovo Pignone. Ma non ne ha mai dati di propri alla collettività, a differenza di tanti gruppi privati.

 

Nel 2010 l’Eni di Paolo Scaroni non smentisce la sua centralità. Come potente braccio imprenditoriale multinazionale preoccupa – come mezzo secolo fa – gli Stati Uniti per la capacità di tenere in pugno progetti geopolitici come il gasdotto South Stream. Sviluppando il “core business” del petrolio e del gas in tutto il pianeta (dal Mediterraneo alla Nigeria, dal Medio Oriente alla Russia e all’Asia ex sovietica) conosce ogni regola di negoziati che non vengono insegnati all’università: non in quelle americane, dove vengono tuttora allevati gli analisti della Cia che cinquant’anni fa bollarono Mattei come pericolo pubblico internazionale. Neppure in quelle tedesche, dove si fatica ancora a commentare che l’ex cancelliere Gerhard Schroeder in persona sia oggi un pagatissimo consulente di Gazprom.

 

Come “industria di Stato”, resta infine strutturalmente immersa nella politica interna di ogni paese in cui opera: a cominciare dall’Italia. E ha sempre il suo primo avversario nel capitale privato. Quello che – già quando Mattei era ancora vivo – il tecnocrate Enrico Cuccia soccorreva puntualmente (con le Bin dell’Iri e con Mediobanca) quando rimaneva “senza capitali”.