Da Davos, la tecnocrazia globalista ha reso più palese la sua exit-strategy difensiva, di retroguardia e controffensiva, in ultima analisi, di auto-tutela dei poteri-interessi costituiti dell’industria finanziaria messi strutturalmente in discussione dalla Grande Crisi.
Le proposte “condivise” avanzate da Mario Draghi, governatore della Banca d’Italia e leader del Financial Stability Board, sono certamente quelle di un candidato: ma non più – chiaramente – al vertice della Bce, quanto a una nuova «super-authority o super-agenzia sovranazionale per limitare i rischi di nuovi crack bancari sistemici o per gestirli in modo ordinato».
A tal fine – ha prospettato Draghi dopo un incontro con il presidente uscente della Bce, Jean Claude Trichet e altri capi di grandi “banche sistemiche” – la nuova authority dovrebbe essere dotata di «capitali, budget e strutture» e la prima e principale forma di finanziamento sarebbe una sorta di «autotassazione delle banche sistemiche».
Il modello in sé è semplice, chiaro e assai poco innovativo: ha la matrice del Fondo monetario internazionale (di cui l’Fsb è emanazione) creato dopo gli accordi di Bretton Woods per stabilizzare l’economia reale nel dopoguerra. Allora a produrre “rischi sistemici” non erano le grandi banche ma gli Stati; e il terreno di gioco (limitato a Usa ed Europa occidentale) non erano i capital markets globali, ma gli scambi commerciali, attraverso un dedalo di singole valute.
La Gran Bretagna e (quasi subito da soli) gli Stati Uniti (tuttora è vero “azionista di controllo” del Fmi) crearono una specie di piccola Onu dell’economia capitalista che (com’è avvenuto praticamente fino a oggi) ha svolto vari compiti: tenere sotto controllo conti pubblici e privati delle singole economie; produrre periodicamente outlook globalisti di fatto vincolanti e (per l’appunto) gestire crisi valutarie e finanziare, esercitando un’influenza soprattutto sugli Stati del Terzo e Quarto Mondo, molti dei quali poi via via emersi.
I contributi al Fondo e i cosiddetti “diritto speciali di prelievo” sono stati i meccanismi operativi di questa stanza di compensazione che ora il “mondo Fmi” vuole clonare e reimporre ai sistemi bancari e ai mercati finanziari. L’ipotesi di allargamento-rimescolamento delle carte del Fmi (seguendo la scia della governance G-20 e aprendo ai “Bric”) dovrebbe annacquare un po’ – almeno negli intenti apparenti – l’idea che l’America della Casa Bianca e di Wall Street voglia riprendere saldamente il timone delle operazioni sugli scacchieri finanziari.
Per la verità “l’authority-fondo” lanciata da Draghi a nome del Fmi-Fsb ha un riferimento interessante anche nei molti fondi di assicurazione dei depositi avviati da decenni da molti sistemi bancari nazionali (l’Italia ne ha due: uno delle banche di deposito e l’altro creato recentemente dalle banche di credito cooperativo, che hanno varato anche un fondo di garanzia per gli obbligazionisti e ora un fondo di garanzia incrociato “sistemico”). Però la loro funzionalità è limitata al risparmio bancario diretto e non ai nuovi giganteschi aggregati di strumenti finanziari di mercato; e poi perfino un paese come la Germania, due anni fa, ha dovuto comunque ricorrere alla garanzia statale totale per tranquillizzare i cittadini-risparmiatori e consentire alle banche di tornare all’operatività.
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In ogni caso una tradizione più consolidata in Europa che negli Stati Uniti, vede una banca a rischio di fallimento soccorsa in modo mutualistico dal resto del sistema con ricapitalizzazioni-acquisizioni e/o fusioni. In Italia i casi recenti sono stati quelli dell’Ambrosiano, di Banconapoli, Banco Sicilia e Banco Sardegna, delle Casse di risparmio meridionali. La Popolare di Novara e quella di Lodi, anche se non in gravi difficoltà, furono agganciate alla Popolare di Verona e Bipop a Capitalia. Anche alcune fusioni tra Bcc sono salvataggi pilotati.
Draghi, ancora una volta, non propone schemi o strumentazioni “di nuova generazione”. Prospetta invece come esito ultimo della crisi – e lo fa con più durezza di quanto emerga dalle affermazioni – un definitivo affrancamento della finanza e delle grandi banche dal controllo politico-civile. Le “banche sistemiche” (a cominciare dalla quasi mitica Goldman Sachs, ma probabilmente includendo giù giù anche realtà come UniCredit o Intesa Sanpaolo) sarebbero di fatto “vigilate” dallo sviluppo strutturale del Financial Stability Board: non più, cioè, da banche centrali nazionali, governi, altre authority indipendenti ma “accountable”, in ultima istanza a sorveglianza civile e democratica.
Vigilerebbe invece Draghi, ex banchiere Goldman Sachs e ora banchiere centrale tecnocrate in Italia, in modo “condiviso” con gli altri banchieri privati. Questo network – di fatto “infrastruttura finanziaria dell’economia mondiale” – realizzerebbe in modo compiuto la propria privatizzazione, garantendo formalmente mercati, Stati, altre dimensioni socio-economiche, sulla propria capacità autonoma di evitare, in futuro, altri collassi sistemici come quelli che hanno distrutto migliaia di miliardi di dollari/euro in attività finanziarie e milioni di posti di lavoro e assorbito centinaia di miliardi di risorse fiscali, compromettendo prevedibilmente i bilanci pubblici per molti anni («soldi tolti a scuole e agli ospedali per salvare banche e banchieri»).
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Simbolica, ma drammaticamente concreta, è l’idea che le grandi banche attivino una “fiscalità” propria: che – par di capire – non versino più il totale delle imposte dovute ai rispettivi Stati (o in prospettiva alla Ue) ma al loro nuovo “fondo” auto-controllato. E se una banca sistemica ha bisogno o deve intervenire a sostegno di altre consorelle, lo deciderà in ipotesi il “club”, certamente con poteri più forti di quelli degli Stati (o della Ue, o del G-20) e delle banche centrali, compresa la Fed e la Bce.
E a proposito: la super-authority ha molte probabilità di essere il “piano B” dopo le (prevedibili) resistenze alla candidatura Draghi per la Bce. Se non addirittura (scontata la fermezza della Germania sul passaggio di Axel Weber dalla Bundesbank alla Bce) la super-authority è la risposta – preparata negli ultimi mesi dal Fsb – alle “provocazioni”di un’Europa che vuole tornare alle regole e al ruolo forte delle banche centrali e dei Governi quanto meno nel sorvegliare più da vicino dove va la finanza all’interno dell’economia e della società civile.
Una linea cui, da qualche giorno ha comunque cominciato a guardare con più interesse anche il presidente americano Barack Obama, sempre più diffidente verso i “fat cats” di Wall Street.