A Iqaluit, tra gli eschimesi, Mario Draghi è stato uno degli speaker-leader tra i ministri finanziari del G-7, ma quando si è presentato alla stampa, ha detto di voler parlare come governatore della Banca d’Italia. Il banchiere centrale italiano, anzitutto, sa bene che le sue chance di candidato alla presidenza Bce restano legate al suo passaporto «europeo» (come ha sottolineato nel suo editoriale domenicale Il Sole 24 Ore) e non potranno far leva più di tanto sul profilo globalista di capo del Financial stability board. E anche la vera carta da giocare nella lunga volata verso Francoforte, è la stabilità del sistema bancario nazionale: la cui vera convention annuale (che continua a chiamarsi “convegno Forex” anche se è da anni estesa a tutte le associazioni professionali dell’industria creditizia nazionale) è in programma nel fine settimana a Napoli.



È per questo che Draghi ha cominciato a parlare al suo “collegio elettorale” da 8mila chilometri di distanza: perché sa (già da tempo, questa nota vi ha dedicato un focus all’inizio dello scorso dicembre) che il suo prestigio di banchiere centrale internazionale non può prescindere da un determinato grado di consenso nella finanza più collegata all’economia reale, com’è quella diffusa nell’Eurozona. E il consenso, sulla ri-regulation di “Basilea 3” non c’è ancora e lo stesso governatore l’ha implicitamente ammesso, quando ha ripetuto in pubblico quello su cui aveva insistito nel privato del G-7.



L’inasprimento delle regole di vigilanza prudenziale, presentato dai banchieri centrali del G-10 di Basilea, non interferirà nello sforzo di rilancio dell’economia: la stabilizzazione del sistema bancario, attraverso più stretti requisiti patrimoniali e più severe politiche anti-rischio sia sui mercati che nell’erogazione del credito alle imprese, non è incompatibile con la terapia della recessione che è seguita alla crisi finanziaria.

«Le riforme le fanno i politici e i tecnici assieme», ha detto Draghi nel gelido fine settimana canadese nel corso del quale il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, ha tenuto un profilo molto basso: evitando comunque ritorni polemici con il suo “avversario”. Quando la partita tornerà a giocarsi in casa (come al Forex) è indubbio che l’exit strategy globalista di Draghi, convinca meno un’opinione pubblica che – soprattutto nei suoi comparti imprenditoriali, ma non solo – è sempre più ostile al sistema bancario.



E il neo-populismo anti-crisi abbracciato anche dal presidente americano Barack Obama, da un lato vuole la resa dei conti con “i banchieri che hanno sbagliato”, ma dall’altro afferra con difficoltà i fini e i mezzi di una ricostruzione interna del sistema bancario attraverso regole e cambiamenti tecnici. “Basilea 2” è ormai passata definitivamente agli annali come sinonimo di “grandi banche internazionali che prosciugano il credito alle Pmi per alimentare le Borse e le multinazionali”, “Basilea 3” non ha ancora fatto breccia nell’establishment politico-economico come effettivo momento di svolta dopo il collasso.

 

Anzi: Tremonti (non da solo) ha buon gioco nell’agitare lo spettro dei tecnocrati finanziari che alla fine vogliono solo salvare il salvabile della loro posizione dominante e dei loro privilegi. Per questo il “faccia a faccia” di Napoli tra Draghi e le “sue” banche – spesso strigliate in passato perché non del tutto rispondenti al paradigma globalista anglosassone – sarà un passaggio non di routine.

 

Questa volta (ed è forse la prima), il Governatore deve convincere la platea dei suoi vigilati (e della più vasta società economica circostante): il look del medico superspecialista con più lauree conseguite all’estero può non bastare a prescrivere gelidamente la solita ricetta ineluttabile.