Anche il principale interessato – il navigato presidente di Mediobanca Cesare Geronzi – certamente non si è mai fatto illusioni sulla possibilità di trasferirsi alla presidenza delle Generali senza contrasti, come candidato “naturale” alla scadenza del mandato dell’84enne Antoine Bernheim. La riprova è che il suo principale sponsor – Francesco Gaetano Caltagirone – ha subito controbattuto con argomenti seri e concreti le prime schermaglie mediatiche sul cambio della guardia (ormai pressoché certo) a Trieste.
Caltagirone – superando con nuovi acquisti la soglia del 2% nel Leone – ha messo sul tavolo le “azioni che non si pesano ma si contano”, dando loro perfino un respiro programmatico: sarebbero un momento simbolico di una classe imprenditoriale nazionale che sta uscendo dalla crisi niente affatto impoverita, né di capitali, né di voglia di investire nelle grandi aziende del paese. E così facendo e dicendo, il costruttore-editore romano ha lanciato un amo tutt’altro che fasullo alle altre importanti realtà imprenditoriali presenti nell’azionariato stabile delle Generali, come Leonardo Del Vecchio e il gruppo De Agostini.
Ma in consiglio c’è anche Diego Della Valle (in rappresentanza di Mediobanca); c’è (come indipendente) Paolo Scaroni: l’ad di Eni che ha ancora lo Stato come primo azionista, ma ha di fatto ereditato da Fiat e Telecom il ruolo di primo gruppo del paese “tout court” (si veda il peso crescente anche nella Confindustria privata, come capofila di Enel, Finmeccanica, Poste e Fs). Non manca neppure Tarak ben Ammar: occhio e braccio del premier-imprenditore Silvio Berlusconi, la cui figlia Marina siede nel consiglio di Mediobanca e nel cui portafoglio familiare c’è il 25% del gruppo Mediolanum (azionista nel patto Mediobanca). Da quanti anni in Piazza Affari si dice che una fusione Generali-Mediolanum può avere senso strategico e darebbe a Fininvest una partecipazione importante e prestigiosa, per di più puramente finanziaria e quindi senza più conflitti potenziali in campo assicurativo?
La candidatura Geronzi per le Generali – così come profilata da Caltagirone – presenta dunque una cornice forte, lontana da una scuola di pensiero molto diversa: che il presidente di Mediobanca abbia fretta di arroccarsi a Trieste per mettersi al riparo dai rischi di una condanna al termine dei processi in corso per il crack Parmalat. Anche in primo grado, un nuovo verdetto che non rispettasse i requisiti di onorabilità previsti da Tesoro e Bankitalia farebbe traballare in Mediobanca la poltrona di Geronzi, che in passato è già stato temporaneamente sospeso in via cautelare dai magistrati sia dalla presidenza Capitalia che dalla vicepresidenza di Piazzetta Cuccia.
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Resta comunque il fatto che il “lodo Caltagirone” rilancia uno storico modello di proprietà, governance e business: un Leone indipendente, controllato da azionisti privati “eccellenti” (e tra questi potrebbero restare anche gli azionisti francesi e spagnoli) e gestito da manager tradizionalmente allevati all’interno della compagnia. Un modello che, in sé, parrebbe offrire garanzie anche a Intesa Sanpaolo, di cui le Generali restano importanti azioniste e il cui presidente Giovanni Bazoli (in rinnovo) è da anni con Geronzi vero “duumviro” bancario nel paese.
Potrebbe non eccepire neppure il governatore Mario Draghi (azionista rilevante delle Generali attraverso il fondo pensioni della Banca d’Italia): ma a patto – prevedibilmente – che la presidenza Geronzi sia senza deleghe e che si realizzi pienamente quella matrice di “public company” anglosassone di cui il Draghi resta storico “guru” anche nel mezzo della Grande Crisi. Ed è qui – quando inevitabilmente parlare di Generali riporta a parlare di Mediobanca e di grandi banche di un paese finanziariamente ancora costruito su credito e Fondazioni – che il “lodo Caltagirone” (apparentemente ineccepibile) fatica a reggere la prova della realtà.
A cominciare dal fatto che Caltagirone stesso è “banchiere” e non da oggi: dopo l’avventura nel capitale Bnl (nella quale il costruttore appoggiava l’Opa Unipol concepita da Giovanni Consorte e Gianpiero Fiorani), oggi è grande azionista consigliere di Montepaschi, titolare in Generali di un pacchetto residuo della grande scalata bancaria del 2003, quando tutte le banche italiane (a cominciare da Intesa e UniCredit) e molte Fondazioni risposero alla scalata interna organizzata in Mediobanca da Vincenzo Maranghi con i soci francesi (guidati dallo steso Bernheim). Era la exit strategy (fallita) di Maranghi dalla successione a Enrico Cuccia.
A giugno saranno trascorsi dieci anni dalla morte del fondatore di Mediobanca e il “dossier Geronzi” in Generali è ancora una cartina di tornasole di un equilibrio provvisorio tra Milano e Trieste, con i palazzi romani sempre attentissimi. E i temi restano due. Quello strutturale è: le Generali devono proseguire da sole il loro cammino strategico, magari con un chiarimento definitivo? Oppure devono apparentarsi – con un chiarimento strategico altrettanto definitivo – a un aggregato bancario (cioè, nei fatti, Mediobanca e UniCredit)?
Dall’altro lato, ammesso e non concesso che Geronzi si trasferisca al vertice del Leone, chi guiderà Mediobanca? Cioè chi guiderà il “Big One”, il grande riassetto banco-assicurativo? Questa probabilmente è un’idea che non è ancora diventata progetto, perché la fattibilità è complessa e le opzioni (tecniche e “politiche”) sono molteplici. È immaginabile che la riflessione possa partire dal fatto che UniCredit, Mediobanca e Generali hanno numerosi azionisti comuni e che sia possibile costruire una “piattaforma proprietaria” solida in grado di ancorare quello che nascerebbe come una delle più grandi istituzioni finanziarie d’Europa.
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Un “nocciolo” in cui potenzialmente conviverebbero Fondazioni e fondi sovrani libici, investitori privati italiani (tra il premier) e soci francesi, senza contare l’influenza tedesca attraverso il presidente di UniCredit Dieter Rampl, vicepresidente di Mediobanca e perno del suo decisivo comitato nomine. Ingegneria finanziaria (in cui peraltro Mediobanca è maestra) e design strategico dovrebbero inevitabilmente dare il massimo nel riorganizzare il gruppo. Non necessariamente seguendo gli esempi esteri, dove è Axa l’azionista di riferimento di BnpParibas, e dove è Allianz (anche se con risultati deludenti) ad aver integrato Dresdner Bank.
Anche se il “Big One” restasse (tutto o in parte) sulla carta, è l’idea di avviare un definitivo “dopo Cuccia” che sta sotto la superficie del “dossier Geronzi”. Che suscita l’interesse sul ruolo che reciteranno i due top manager di Mediobanca: l’amministratore delegato Alberto Nagel e il direttore generale Renato Pagliaro (che continua a restare il vero “erede morale” della Mediobanca di Cuccia e Maranghi). Entrambi – dopo il rapido e turbolento abbandono della governance duale nell’istituto, imposto da Geronzi – occupano ora due seggi su sei nel comitato nomine (sugli altri siedono Geronzi, Rampl, Marco Tronchetti Provera e ben Ammar) e sarà Nagel formalmente a proporre il nome del prossimo presidente di Generali, candidato dall’azionista di maggioranza relativa.
E sarebbe poco verosimile che l’eventuale designazione di Geronzi a Trieste avvenisse senza un contestuale accordo su chi prenderà il suo posto in Piazzetta Cuccia. Anzi, le sue tre presidenze: patto di sindacato, consiglio d’amministrazione, comitato esecutivo. Che è quasi impossibile restino “impacchettate”. Il nome di Marco Tronchetti Provera – vicepresidente di Mediobanca – già messo in gioco dai rumor per la possibile successione di Geronzi, è in realtà più praticabile per l’eredità singola alla presidenza del patto di sindacato.
Per il cambio della guardia “vero” al vertice di Piazzetta Cuccia il nome accreditato è quello di Fabrzio Palenzona. Una figura poliedrica quella del vicepresidente di UniCredit, da sempre “dominus” della Fondazione Crt: da politico puro (presidente Dc della Provincia di Alessandria) si fa strada nell’ultimo decennio proprio a partire dalla vicepresidenza di Piazza Cordusio: quasi ormai una “co-presidenza” rispetto a Rampl a in asse con l’amministratore delegato Alessandro Profumo.
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Una carica cui Palenzona ne ha abbinate molte altre: come quella di membro dell’esecutivo Mediobanca e di presidente dell’Aiscat (l’associazione dei gestori autostradali italiani). Sarà lui il nuovo presidente di Mediobanca se Geronzi partirà per Trieste? Il risultato – nella sostanza – non cambierebbe se anche Palenzona si dovesse “limitare” ad assumere la vicepresidenza in quota UniCredit, subentrando a Rampl.
Si tratterebbe in ogni caso di una vicepresidenza fortemente “esecutiva”, caratterizzata da una capacità di interfaccia con i soggetti-chiave dell’establishment politico-finanziario del paese: dal ministro Giulio Tremonti al leader dell’Acri Giuseppe Guzzetti. E ciò sarebbe indipendente da chi assumesse la presidenza formale di Mediobanca, prevedibilmente una figura di garanzia, con un corretto peso specifico.
E in questo caso il candidato (quasi unico), sarebbe chi ha già fatto il presidente di Mediobanca nel dopo-Maranghi: Gabriele Galateri di Genola, oggi alla presidenza di Telecom. Una realtà, il campione nazionale delle tlc, che – anche per la pressione delle inchieste giudiziarie – sembra a sua volta alla vigilia di una svolta. Galateri è quindi da subito spendibile come “riserva della Repubblica” per un ennesimo assestamento in Mediobanca. O in ipotesi estrema anche in Generali, se alla fine l’opzione Geronzi non dovesse maturare e il turnover a Trieste si dovesse comunque compiere.