Questa piccola rubrica si interroga da tempo sul futuro (imprevedibile e inatteso) di quell’unicum globale che sono le Fondazioni di origine bancaria in Italia. A quasi vent’anni dalla legge Amato-Carli del 1990, tutto sembrava pronto per la definitiva “fase due”, dopo il graduale disimpegno dal controllo delle banche e il travagliato debutto come capofila della sussidiarietà strategica nel Paese.



“Organizzatrici delle libertà sociali”: così le Fondazioni erano state ribattezzate nel 2003 dalla Corte costituzionale a conclusione di due anni di confronto – alla fine costruttivo – tra l’Acri di Giuseppe Guzzetti e il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti. Investitori istituzionali prudenti e gestori strutturati del “privato sociale” (soprattutto nell’education e nella coesione sociale): sembrava questo il ben identificato binario delle Fondazioni prima che la crisi finanziaria si abbattesse sui loro patrimoni e quindi sui loro redditi da erogare; e colpisse le banche da loro partecipate e l’intero sistema-paese.

Da un lato sulle Fondazioni è tornata pressione di sussidiarietà “primaria” (ad esempio: aiuto a disoccupati e famiglie atterrate dalla crisi). Dall’altro è risultata meno contestabile la richiesta da parte del Governo di sostenere con i patrimoni: il rilancio della Cassa depositi e prestiti e dei fondi pubblico-privato per infrastrutture, social housing e ricapitalizzazione delle Pmi hanno richiamato le Fondazioni nel cuore dell’Azienda Italia.

Non da ultimo le Fondazioni si sono ritrovate presidio non più tanto di “italianità”, quanto di “stabilità” di un sistema bancario esposto alla peggiore crisi di sempre. Su questo sfondo, non pare più tempo di distinguo ideologici sul ruolo delle Fondazioni presso le grandi istituzioni: la Cariplo e la Compagnia San Paolo stanno concordando il rinnovo del vertice di Intesa Sanpaolo; le Fondazioni di UniCredit (il gruppo più internazionalizzato e quindi in trincea) hanno chiesto al Ceo Alessandro Profumo una pausa di riflessione nel nuovo piano di integrazione delle banche italiane del gruppo. La Fondazione Crt, infine, ha rilevato direttamente il 2,2% di Generali, all’ennesima vigilia di un delicato cambio di presidenza.

E Fabrizio Palenzona, dominus della Crt, vicepresidente di UniCredit e membro dell’esecutivo Mediobanca, è seriamente indicato come uomo-chiave del possibile passaggio di Geronzi dalla presidenza dell’istituto a quella della controllata del Leone. Il tutto, prevedibilmente, d’intesa con Giovanni Bazoli, presidente (per un altro triennio) di Intesa Sanpaolo. Ma non importa, ai fini di questa riflessione, “come andrà a finire” in Mediobanca, Generali, Intesa, UniCredit e Telecom.

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Interessa di più osservare che la lunga successione a Enrico Cuccia (morto dieci anni fa a giugno) può concludersi in modo solo apparentemente paradossale. Cuccia era nato come funzionario dell’Iri, veicolo pubblico-privato creato per salvare le banche e rilanciare l’economia. Palenzona, ex presidente della Provincia di Alessandria, poi leader di Fondazione, poi banchiere e imprenditore pubblico-privato (dalle Autostrade ad Aeroporti di Roma) è il successore in linea retta di quel modo di concepire i rapporti tra Stato e mercato che Mediobanca ha realizzato nella seconda metà del ventesimo secolo.

 

La turbo-finanza globalista sembrava aver spazzato via quella filosofia Iri che in ogni caso non potrà mai più risorgere tale quale. Anzi: l’exit strategy del capitalismo bancario-assicurativo italiano “a leva” sulle Fondazioni – unica piattaforma sopravvissuta alla crisi – è tutta da inventare. Se ritrovassimo solo un simulacro di Iri, le Fondazioni avrebbero in ogni caso dimenticato la battaglia civile condotta in prima persona al suo esordio anzitutto dalla Fondazione per la Sussidiarietà, editore di questo quotidiano on line.