«Il Fondo monetario internazionale? Può essere utile, ma solo come banca. Anche l’Italia sta aumentando i suoi contributi». Le parole (sferzanti) del ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, all’Aspen European Dialogue di Venezia, hanno chiosato a dovere la settimana-chiave del salvataggio della Grecia. Che si è conclusa in modo in parte inatteso: le istituzioni europee (dall’Ue alla Bce) non sono intervenute direttamente a sostegno di Atene, se non tenendo ferma la presa di posizione politica del consiglio straordinario dell’11 febbraio (lo ha ben ricordato sul Sole 24 Ore il neo-commissario agli affari economici e monetari Joaquin Almunia).

La Grecia ha invece potuto collocare con successo sul mercato un proprio bond da 5 miliardi, avviando il rifinanziamento del suo debito pubblico. È immaginabile che le banche tedesche (probabilmente anche alcuni istituti parapubblici come la Kfw, la “cassa depositi e prestiti di Berlino) abbiano creato un piedistallo per l’operazione, che la speculazione di mercato avrebbe reso molto più difficile e onerosa, se non impossibile.

Ma tant’è: l’Europa (anzi l’eurozona) ha potuto esplicare in pieno – forse per la prima volta – la funzione “sussidiaria” implicita nei trattati di Maastricht. Per ora le finanze pubbliche degli Stati-membri non sono state messe alla prove ma è stato il “mercato unico” a generare le risorse del salvataggio. La Grecia non è stata “umiliata” nella sua sovranità, ed è stata invece obbligata a varare un piano di austerity, sia per il bilancio statale sia per l’economia privata: con una novità non da poco su scala europea come la fine dell’intangibilità delle retribuzioni dei dipendenti pubblici.

Ma tutti i cittadini greci sono – e si devono sentire – corresponsabili della falsificazione dei bilanci operata dopo il 2000 dai loro governi. Ma anche gli altri 26 paesi dell’Unione e i 16 dell’Eurozona (molti dei quali non stanno molto meglio della Grecia) sapranno trarre una lezione concreta e utile per modellare la loro exit strategy verso la ripresa.

Se anche solo una parte del percorso delineato sarà coperto – dalla Grecia e dall’Europa – il decennale dell’euro potrà comunque essere segnato da un nuovo test positivo, forse decisivo. Mentre accusano certamente il colpo due istituzioni, simbolo della globalizzazione finanziaria “one way”: la super-banca d’affari Goldman Sachs (che aveva provato a far sparire il buco dal bilancio greco con un maxi-derivato); e – per l’appunto – il Fondo monetario internazionale.

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L’Fmi è stato lungamente invocato al capezzale di Atene – per curiosa coincidenza – nei giorni in cui un gruppo di hedge fund internazionali (guidati da George Soros) avrebbe tentato un attacco speculativo contro l’euro e i titoli di stati europei più deboli (forse nel mirino c’era anche l’Italia). Singolarmente la pressione si sta scaricando fuori dall’euro (sulla sterlina) e su un’economia come quella britannica, poco integrata con il tessuto manifatturiero del Continente.

 

Tremonti ne ha approfittato per coniare una nuova sigla: i rischi sistemici non vengono più solo dai Pigs (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna) ma anche dai “Fire”: quegli stati che hanno puntato molto su finanza, assicurazioni e immobiliare, come la grande città-stato apolide che si chiama Londra.

Il Fondo – la grande “banca degli stati” nata a Bretton Woods, la Yalta economico-finanziaria che chiuse la seconda guerra mondiale – è però rimasto inattivo: non è stato né l’ufficio studi, né il consiglio d’amministrazione, né il garante, né il finanziatore ultimo del salvataggio greco. Il Fondo – di cui gli Usa restano “azionista di riferimento” poteva “essere utile come banca”, ha ammesso Tremonti, ma non è stato indispensabile: certamente non come “istituzione di governo”. Almeno per la governance di quella federazione monetaria che si chiama Europa.

 

Anche questa è una tappa di un’exit strategy che sarà ancora lunga e sarà prevedibilmente ancora ricca di sorprese e riequilibri: non necessariamente gradevoli per tutte le realtà del vecchio Occidente. Europa compresa.