«È chiaro che le banche più grosse del Nord avranno uomini nostri a ogni livello. La gente ci dice “prendetevi le banche” e noi lo faremo…» Queste parole del leader della Lega Nord Umberto Bossi sono schioccate con il fragore di un tuono nella giornata di ieri, già percorsa da una atmosfera elettrica di attesa per l’incontro programmato in serata tra il Senatur e il Premier Silvio Berlusconi.

Eppure non c’è davvero da sorprendersi. Senza clamore, IlSussidiario.net, prima delle grandi testate finanziarie, la scorsa settimana ha anticipato nella nota di Gianni Credit il “sorprendente” scenario della “secessione bancaria” made in Padania. Ve ne riproponiamo la lettura, alla luce delle parole di Umberto Bossi. Un contributo per ricostruire le mosse del leader leghista.

Dopo le amministrative di metà anni ’90, la Lega Nord era già nominalmente al 30% (cioè in maggioranza relativa) in una sede politico-bancaria molto speciale: la Commissione centrale di beneficenza della Fondazione Cariplo, allora formata da 18 membri, esclusivo appannaggio degli enti locali lombardi.

La Fondazione era ancora controllante al 100% della gigantesca Cassa di risparmio (terza banca del paese e futuro architrave di Intesa Sanpaolo) e attraversava una delicata “vacatio”: il presidente Roberto Mazzotta era autosospeso. La “cogestione” era di fatto affidata all’ex manager industriale Ottorino Beltrami e ad alcuni bocconiani del centro-sinistra come Claudio Dematté e Roberto Artoni. La Lega, tuttavia, non sfondò: per diverse ragioni.

La prima e principale fu certamente l’emergere della leadership collaudata e mediatoria di Giuseppe Guzzetti, che da subito accelerò la spoliticizzazione della vita della Fondazione, dando spazio alle nuove dimensioni sussidiarie e territoriali. Ma fu egualmente rilevante – probabilmente al di là degli intenti dei vertici nazionali della Lega – la decisione “federale” della giunta Formentini a Milano, di inviare in Cariplo non due militanti, ma due economisti “outsider” come Alessandro Penati (oggi commentatore finanziario di punta di Repubblica) e Angelo Miglietta, che dalla cattedra in Cattolica si trasferì in seguito alla Fondazione Crt come segretario generale e potente braccio operativo di Fabrizio Palenzona (oggi snodo tra UniCredit, Mediobanca e Generali).

Fu l’allora assessore al Bilancio del Comune di Milano, Marco Vitale, a dare un’impronta insolitamente “tecnocratica” alle prime, vere mosse della Lega sullo scacchiere bancario. Complice anche l’avvento del Governo Prodi (e di Carlo Azeglio Ciampi al Tesoro), la Lega in ogni caso non riuscì – più che altro disinteressandosene – a occupare da subito una delle stanze dei bottoni del mondo creditizio italiano.

Ma quasi lo stesso fece – nei medesimi anni – a un altro tavolo, forse più potenzialmente “leghista” ancora nelle sua natura: la Banca Popolare di Milano. L’istituto – messo in ginocchio dall’esposizione al crack Ferruzzi – era sotto pressione per la sua governance cooperativa monopolizzata dai dipendenti-soci: pochissimi (5mila, il doppio con parenti e alleati) su un corpo sociale che superava le 100mila unità.

Quando il presidente-risanatore Francesco Cesarini fu messo in minoranza, ma decise di dare battaglia in assemblea, non erano pochi quelli che si attendevano un’offensiva leghista in un confronto popolare “a voto per testa”. Eppure anche allora la capacità di mobilitazione dell’ancora giovane partito non entrò in azione su una “nicchia” di alto valore strategico: e sarebbero bastate alcune migliaia di soci-non dipendenti (quasi tutti concentrati in Lombardia) quanto meno per mettere a dura prova la storica forza auto-organizzativa dei sindacati interni della Bpm.

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Ma la Lega non ha mai “disturbato” neppure gli altri “giganti del Nord”: la Popolare di Verona (che ha aggregato quella di Novara); o quella di Bergamo (che si è fusa con la bresciana Banca Lombarda); né ha affiancato l’iniziale ascesa dell’AntonVeneta o le mosse della Popolare di Vicenza. E in fondo si è tenuta a distanza anche da tutte le avventure della cosiddetta “finanza padana”: da quella di Roberto Colaninno ed Emilio Gnutti su Telecom (targata anzi Ds), a quella di Gianpiero Fiorani e della sua Popolare di Lodi (alla fine appoggiato soprattutto sul premier Silvio Berlusconi).

 

Non ha “infiltrato”, infine, il sistema bancario nordico e federale per eccellenza: il Credito cooperativo, tra i cui mille “banchieri orizzontali” i simpatizzanti della Lega non sono certo pochi. Per paradosso solo parziale, a un certo punto la Lega si è impuntata a partire “dal basso” anche in campo creditizio, fondando il Credieuronord, una banca senza precisa connotazione strategica (Bcc, banca d’affari, asset manager?) quasi subito naufragata.

 

Val solo la pena di ricordare che in questo incidente di percorso, la Lega “bruciò” anche Francesco Arcucci: un economista di Bergamo che era stato inizialmente “adottato” da Giovanni Bazoli nella governance della prima Banca Intesa, il cui modello strategico non per caso si chiamava “federale”.

 
Il problema è stata la scarsità di personale qualificato da spendere (o meglio, di personaggi qualificati disposti a spendersi appoggiandosi a una forza politico-sociale ancora magmatica)? Oppure è mancata una cultura politico-bancaria confrontabile con quelle via via consolidatesi nella Prima Repubblica (Dc, Pri-Pli, Psi)?

 

Non va esclusa probabilmente una circostanza d’ambiente: il ventennio di ascesa della Lega è stato – fino alla Grande Crisi – una lunga fase di boom per l’economia e la finanza. È stato un periodo in cui l’elettore leghista medio (tipicamente il piccolo imprenditore) ha visto aumentare i propri redditi e la propria ricchezza. La banca è stata spesso più gestore entusiasta dei suoi risparmi che finanziatore occhiuto.

 

I problemi – per questo “italiano” – sorgevano allo sportello fiscale e a quello della pubblica amministrazione in genere, non a quello bancario (e neppure più a quello sindacale). La banca non è stata un “nemico” ed è invece spesso cresciuta “sul mercato” con l’elettorato leghista fino a quando i bond Parmalat e Cirio si sono rivelati carta straccia. E quando qualcosa denominato “Basilea 2” ha messo pesantemente in discussione il tradizionale rapporto di credito tra banca e imprese di territorio.

È in questi anni (il crack Cirio è dell’autunno 2002) che Giulio Tremonti concepisce e sviluppa la sua strategia politico-culturale di lungo periodo, ormai da tempo etichettata come “anti-mercatismo”: di fatto la piattaforma economico-finanziaria della Lega, in capo al super-ministro economico che sintetizza l’esigenza di profilo (anche internazionale) da parte del premier e il supporto elettorale interno da parte del partito di Bossi.

 

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Tremonti – su questo terreno – è davvero il “Ciampi del centrodestra”. Come l’ex Governatore della Banca d’Italia (poi presidente della Repubblica) fu dal ‘96 al ‘98 un punto d’equilibrio non sostituibile nel conto alla rovescia verso l’euro, Tremonti lo è oggi: anche nel ruolo attivo di interfaccia con il sistema bancario. I suoi “lunedì a Milano” (spesso con pranzi veloci presso l’Intendenza di Finanza) raccolgono frequentemente personaggi come Guzzetti e Palenzona, come i due Ceo di UniCredit (Alesando Profumo) e Intesa (Corrado Passera).

 

È qui che ha preso forma la strategia della “Grande Cassa Depositi e Prestiti” (circondata di fondi di sviluppo per le infrastrutture, per il social housing, per la ricapitalizzazione delle Pmi). È il Tremonti-network al Nord che ha partorito la Banca del Sud, imperniata sul sostegno del Credito cooperativo. Non è mancato il tacito “voto” di Tremonti al rinnovo (in chiave di sostanziale continuità) per una banca-paese come Intesa Sanpaolo.

 

L’occhio del ministro (anche per conto della Lega) è attentissimo anche agli sviluppi al vertice di UniCredit (e presumibilmente non favorevole a un’uscita di scena traumatica di Profumo). Se la lettura non appare eccessiva, anche il passaggio di Cesare Geronzi al vertice Generali (con l’appoggio decisivo di Gianni Letta e dell’entourage romano di Berlusconi) e il ritorno di un manager interno come Renato Pagliaro alla presidenza di Mediobanca non è risultato sgradito a Tremonti. Per il quale comunque, la lotta a “Basilea 2” resta una priorità politica molto “leghista”.

Perché una banca italiana (sopravvissuta alla crisi) non può prestare soldi a una piccola impresa italiana perché lo vietano le regole stabilite da banchieri centrali internazionali, clamorosamente violate dalle investment bank della City e di Wall Street? Perché i risparmi di molti italiani (in maggioranza del Nord) sono stati ingoiati dal barattolo – vuoto – di pelati Cirio che Tremonti tiene sulla scrivania di Quintino Sella in Via XX Settembre? Perché tanti Comuni italiani sono rimasti prigionieri della “lotteria della morte” dei derivati?

 

Queste sono le premesse strategiche della “seconda volta” della Lega “di governo”, che ora non potrà non occuparsi anche di banche. Senza dimenticare che dal 2001, l’unica vera riforma costituzionale varata in Italia, attribuisce alle Regioni una potestà legislativa concorrente in campo creditizio: su Bcc, Casse di risparmio, finanziamento dell’agricoltura e altra “finanza sussidiaria”.

 

La nuova Cassa di risparmio del Nordovest promossa da Carige e dalla Fondazione Crt è già una realtà di questo “federalismo bancario”, che ovviamente vuol essere lontanissimo dal vecchio – e fallimentare – potere di autorizzazione di apertura degli sportelli detenuto dalla Regione Siciliana.