Contano di più, nell’odierno capitalismo finanziario italiano, i 12.500 soci presenti all’assemblea del Banco Popolare; o pesa di più il 38,1% del capitale Generali che, sempre sabato, ha eletto Cesare Geronzi nuovo presidente? Sia il raduno di Novara sia quello di Trieste sono due appuntamenti storici per la finanza nazionale (anche se il primo ha recentemente sofferto di alcuni anni d’interruzione dopo la fusione-salvataggio della più grande Popolare europea in quella di Verona).
In entrambi i casi la tradizione parla di assemblee partecipate da migliaia di azionisti, sempre attese, mai banali nello svolgimento, sempre “di notizia”. Entrambe vetrina annuale di public company modello della Corporate Italy, anche se di specie diversa: grande istituzione quotata in Borsa il Leone, con alcuni prestigiosi soci-guida, non solo italiani; grande cooperativa bancaria la Novara, oggi rinata nel Banco Popolare, forte di oltre 200mila soci: che possono detenere fino allo 0,5% del capitale e anch’essi negoziare i loro titoli in Borsa; ma che, al momento del voto in assemblea, contano ancora tutti “una testa”, senza distinzione di possesso.
Anche sabato ambedue le convention sono tornate puntualmente a far notizia. Non è stato certo “ordinaria amministrazione” che un sabato semifestivo di aprile molte migliaia di imprenditori, professionisti, “cittadini risparmiatori” dell’Italia settentrionale siano affluiti in una delle molte-città rete (oltre a Novara,: Verona, Bergamo, Lodi, Modena, Reggio Emilia, Lucca) del quarto gruppo bancario nazionale. Non lo è stato al termine di un altro “annus horribilis”: per gli investitori in titoli bancari (per chi in particolare ha visto deprezzarsi molto un pacchetto di azioni in famiglia magari da un paio di generazioni) e per i clienti di banche sotto pressione gestionale e reputazionale (e anche nel grande credito cooperativo il socio resta quasi sempre cliente).
Il Banco Popolare non è stato certo un’isola felice durante il sostanziale default della controllata Banca Italease (che operava in finanza derivata di grande taglio) ha anzi acuito le tensioni attorno a un gruppo che ha sempre avuto nel commercial banking sul territorio il suo punto di forza. Anche se le vere forche caudine erano state superate già all’assemblea 2009 (quando il Banco si era presentato con un nuovo amministratore delegato, Pierfrancesco Saviotti), non era scontato che la convention novarese avrebbe segnato una ricucitura effettiva tra governance e base sociale (nel doppio senso letterale del termine: azionariato e “humus socioeconomico”).
Tanto più che – ancora secondo consuetudine – in agenda c’erano gli interventi dei due sindaci di Verona e Novara: Flavio Tosi e Massimo Giordano, vere punte di lancia della Lega nelle grandi municipalità del Nord, per di più all’indomani dello storica doppia vittoria del Carroccio nelle Regioni Veneto e Piemonte. Ancora: a pochi giorni dalla dura pretesa pubblica di Umberto Bossi, “più uomini della Lega nelle banche del Nord”.
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Invece sia Tosi che Giordano (ma quasi all’unisono anche il sindaco di Lodi, Lorenzo Guerini, di centrosinistra) hanno portato il sostegno delle rispettive amministrazioni – e in senso più lato delle società civili – attorno al Banco, alle sue strategie. Hanno chiesto ovviamente attenzione per i soci, per i clienti, per i dipendenti.
Ma è quello che hanno fatto i loro predecessori, intervenendo sempre come soci tra migliaia di altri soci, cioè all’interno della governance cooperativa della banca. Fondamentalmente privata, ma non solo profit-oriented. Un po’ pubblica in quanto territoriale e sussidiaria. In forma sideralmente lontana da quanto avrebbe fatto un Warren Buffett, che pure riunisce attorno al fondo Berkshire assemblee molto popolari; e che pure ha rilevato il 10% di Goldman Sachs in parte “per il bene degli Stati Uniti”.
Ma Tosi e Giordano hanno preso oggettivamente le distanze anche dal loro Senatur, che però – quando ha calato la spada a mo’ di Brenno sugli equilibri di Intesa e UniCredit – aveva in mente soprattutto le grandi Fondazioni: da Crt a CariVerona, da Cariplo a Compagnia San Paolo. Sono gli enti, che, in fondo, pesano più di quanto sembri in quel nuovo, granitico “nocciolone duro” delle Generali. Perché i destini di Mediobanca restano comunque appesi a UniCredit, dove Fabrizio Palenzona è il tramite tra le Fondazioni, il Ceo Alessandro Profumo e gli altri soci privati.
Ed è proprio la Crt di Palenzona a essere sbarcata n forze in Generali, dove restano azionisti diretti sia Intesa che la Cariplo, che la san Paolo. In fondo, anche Francesco Gaetano Caltagirone, gran rastrellatore di titoli del Leone e grande sponsor della staffetta tra Antoine Bernheim e Geronzi e a sorpresa neo-vicepresidente della prestigiosissima compagnia, deve qualcosa a una grande Fondazione: la Montepaschi, che controlla la banca di cui lo stesso costruttore-editore capitolino è azionista di minoranza e vicepresidente.
Vent’anni fa Mediobanca e la cassaforte estera Euralux (promossa dalla Lazard del più giovane Bernheim) controllavano le Generali con meno del 10%. Oggi – sull’onda lunga della scalata nazionale promossa dall’allora Governatore Antonio Fazio nel 2003 per contrastare l’auto-scalata di Vincenzo Maranghi con i francesi – il Leone ha una piattaforma concentrata di azionisti stabili che lo rende non scalabile e ne certifica l’italianità attraverso le partecipazioni di gruppi come Caltagirone, Del Vecchio, De Agostini, con il tacito appoggio della Banca d’Italia e dei grandi asset manager nazionali.
La presidenza Geronzi e la forte tutela da parte delle Fondazioni ne fanno non solo una società “italiana”, come la concepiva Fazio, ma forse anche come i sindaci di Verona e Novara concepiscono il “loro” Banco, presidiato in forze da decine di migliaia di “azionisti-elettori”.