In pochi giorni, il rinnovo della presidenza della Consob è diventata metafora dell’impasse politica interna. Non è necessariamente un buon segno: sarebbe stato utile che la scelta del successore di Lamberto Cardia si ritagliasse sullo sfondo delle riforme finanziarie faticosamente in progress nel dopo-crisi.
Certo, sempre meglio il dibattito arroventato e le raffiche di nomi piuttosto che l’incedere a piccola velocità – su binari consumati dall’uso – del tentativo- quanto meno anomalo – di confermare ancora il presidente uscente. Cardia – ex presidente di sezione alla Corte dei conti e in quanto tale ex sottosegretario alla Presidenza con il governo Dini – si è ritrovato alle soglie (gradite) di una iper-proroga: dopo cinque anni da commissario semplice, altri cinque da presidente e gli ultimi due “in prorogatio” in virtù di un decreto “ad personam” che escludeva espressamente altri mandati.
Invece nelle pieghe di qualche provvedimento di politica economica potrebbe ancora far capolino un ennesimo codicillo che lascerebbe a Cardia la guida della Commissione per almeno un altro anno. Un’operazione che ha provocato un’alzata di scudi nei settori dell’opposizione: forse la prima – da molto tempo – finalizzata a contrastare in modo puntuale la maggioranza su una scelta, un nome, una logica politica.
L’ipotesi Cardia-ter è peraltro un ballon d’essai destinato ad aprire divisioni nello stesso centrodestra ed è in sé abbastanza leggibile: sia sul piano dell’equilibrio interno dei poteri italiani, sia (in parte) su quello delle spinte contrapposte al tavolo delle riforme finanziaria post-crisi.
Il grande “patron” di Cardia è da sempre Gianni Letta, suo successore alla “batteria” di Palazzo Chigi. E – non è un mistero – è l’attuale sottosegretario alla Presidenza a sentire l’esigenza forte e immediata di “battere un colpo” sul “suo” scacchiere: quello dei palazzi capitolini, che le inchieste G8 stanno stringendo in una morsa.
Tutto questo mentre il premier Berlusconi sembra per ora non voler optare tra intenti “risanatori” (a ridimensionare un Pdl romanocentrico) e preoccupazioni di difendere il centrodestra da attacchi concentrici; anche attraverso “ritirate tattiche” verso il Nord, lasciando scoperta l’ala “politicista” del Pdl, erede di Dc andreottiana e Psi craxiano, abbarbicata nei centri di potere della capitale. E proprio il caso Consob è altamente simbolico.
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L’avversario – istituzionale, politico e personale – di Letta è quel Giulio Tremonti che, sempre più, si muove da “co-premier” per conto della Lega e da plenipotenziario economico-finanziario (ultimo episodio: il neo-presidente del consiglio di gestione di Intesa Sanpaolo, Andrea Beltratti, ha subito reso visita al Tesoro, non alla Banca d’Italia).
E Tremonti di candidature in tasca ne ha un intero ventaglio: a cominciare da quella del fedele sottosegretario Giuseppe Vegas, fino a quelle – molto nordiste e perfino “anti-berlusconiane” – del procuratore aggiunto di Milano Francesco Greco (“lo Spitzer italiano”) o dell’economista Marco Onado, già membro della Consob. Perfino la (timida) autocandidatura di Massimo Capuano (ormai ex amministratore delegato di Borsa Italiana) è in realtà rivolta al ministro. Al quale guarda ormai quasi compatto l’establishment bancario settentrionale (con l’unica eccezione, forse, del neo-presidente delle Generali, Cesare Geronzi, “lettiano” storico nella liasion con il Cavaliere). La stessa candidatura, infine, di Domenico Siniscalco (ex ministro dell’Economia, presidente dell’Assogestioni e mancato presidente del cdg Intesa) va annoverata come “tremontiana”.
Ma se gli intermediari – e le Fondazioni loro azioniste – sono ormai oggettivamente “tremontiani”, il mondo delle società quotate (principale oggetto di vigilanza della Consob) è forse meno sfavorevole a un Cardia-ter, per quanto d’incerta immagine. L’effetto-continuità può funzionare, anche se la costruzione di un profilo “affidabile” è costata a Cardia qualche polemica: a parte quelle di scarsa incisività in passaggi-chiave della storia finanziaria italiana recente (dai crack Cirio e Parmalat alle scalate AntonVeneta e Bnl), hanno pesato gli interrogativi (sempre respinti al mittente dall’interessato) sul ruolo del figlio di Cardia, avvocato e consulente di decine di società quotate.
Lo stesso Letta, in ogni caso, ha pronte altre frecce in caso di indifendibilità del suo pupillo: soprattutto dopo la dura presa di posizione dei parlamentari Pd, che hanno voluto cogliere in modo manifesto la forte connotazione politico-giudiziaria dell’“affaire Cardia”. Candidature forti – da mesi – sono quelle dell’attuale numero uno dell’Antitrust, Antonio Catricalà e del presidente uscente della Corte di cassazione, Giuseppe Carbone. Il quale, tuttavia, ricalca un cliché di un presidente-burocrate all’authority: come era stato Franco Piga (in un periodo tra i meno limpidi nella storia Consob) o come avrebbe dovuto essere Carlo Sammarco, il potente presidente “andreottiano” della Corte d’Appello di Roma alla vigilia di Tangentopoli.
Allora (era il 1992) la spuntò invece un politico, ancorché profondo conoscitore del Nord dell’industria e degli affari: Enzo Berlanda, il quale tenne a battesimo i prodromi della riforma Draghi del ’98 (Opa, insider trading, Sim, privatizzazione della Borsa, fiscalità finanziaria, ecc.). Dopo di lui vennero Tommaso Padoa-Schioppa (subito promosso all’esecutivo della neonata Bce) e l’economista della sinistra indipendente Luigi Spaventa.
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In fondo l’unico, vero identikit innovativo è giunto dall’Idv, che ha candidato Luigi Zingales: l’economista di Chicago talmente irriducibile nel difendere le ragioni del libero mercato “sano” da essere diventato uno dei più implacabili fustigatori del collasso di Wall Street. Zingales, del resto, ha già dato prova di autonomia nell’esprimere dissenso nel board di Telecom (in cui è consigliere indipendente) e nell’esprimere critiche pubbliche a maggiorenti del sistema bancario italiano come Cesare Geronzi.
Forse Zingales per primo declinerebbe un invito a lavorare da “civil servant” in Italia per cinque anni. Ma il solo aleggiare del suo nome potrebbe sollecitare Parlamento e Governo a voltar pagina rispetto a una Consob che ha assistito a troppi sconvolgimenti sui mercati finanziari per mantenere ancora un minimo di “forza propulsiva”.
E una Consob “di ordinaria amministrazione”, alla fine non è nell’interesse neppure della Banca d’Italia di Mario Draghi, tradizionalmente gelosa del suo primato nella supervisione del sistema finanziario.