Lunedì mattina, Angelo Benessia, presidente della Compagnia San Paolo affronta in consiglio comunale di Torino una sorta di “redde rationem” dopo le lacerazioni che hanno accompagnato sotto la Mole il rinnovo dei vertici di Intesa Sanpaolo.

Al suo fianco c’è suor Giuliana Galli, anima del Cottolengo e candidata a una sorta di co-presidenza di garanzia da un folto fronte dissidente, scontento di come Benessia ha condotto la partite della nomine Intesa: senza difendere Enrico Salza al vertice del consiglio di gestione (sostituito da Andrea Beltratti, un economista non torinese) e senza riuscire a imporre l’ex ministro del Tesoro Domenico Siniscalco, gradito al sindaco Sergio Chiamparino.

E proprio il primo cittadino di Torino fa poco per evitare tre ore di “processo” politico locale, mentre la stessa suor Giuliana non esclude più di poter assumere un ruolo più forte nella Compagnia. Quasi ovvio che Benessia si rifugi in una posizione da manuale, formalmente inattaccabile: «Le Fondazioni bancarie dovrebbero uscire definitivamente dalle banche e dedicarsi interamente alla loro missione di operatori del terzo settore».

A vent’anni quasi compiuti dal varo della legge Amato-Carli sarebbe un’affermazione da convegno celebrativo, da “bilancio”, ma in condizioni normali. Il palco della Compagnia Sanpaolo non è invece ineccepibile per rilanciare la “mission” di lungo periodo affidata alle fondazioni all’alba della privatizzazione del sistema bancario.

La Compagnia torinese resta oggi di gran lunga il primo azionista (9,9%) della banca nata tra Torino, Milano, il Veneto, Bologna, Firenze e Napoli. La stessa Cariplo e gli altri enti (CariPadova, Cassa Bologna, CariFirenze, ecc.) si sono sempre diluiti, la Compagnia San Paolo ha invece rafforzato ultimamente la sua quota.

Di più (ma lo aveva riconosciuto lo stesso Benessia in un precedente intervento di chiarimento al Consiglio generale della sua fondazione) non è tempo di dismissioni di partecipazioni strategiche bancarie: quando i valori di Borsa sono bassi (e dunque le fondazioni cederebbero in perdita), ma soprattutto quando le banche italiane hanno bisogno di stabilità nei loro assetti di controllo.

Non è quindi un caso che – a stretto giro – sia stato addirittura l’amministratore delegato di Intesa Sanpaolo, Corrado Passera, a replicare: le fondazioni sono ideali azionisti di lungo periodo per le banche italiane. Con il sottinteso: hanno mostrato (non solo in Intesa, ma anche in gruppo come UniCredit e Montepaschi) di saper reggere periodi di minor redditività dei loro investimenti e si tengono perfino di riserva (con i loro capitali liquidi abbastanza preservati dalla crisi) per eventuali iniezioni di nuovo patrimonio.

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Le parti sembrano – sono – dunque invertite rispetto a pochi anni fa o agli stereotipi di sempre: il top manager professionale “chiama” le fondazioni a coprirgli le spalle; il capo di una delle maggiori fondazioni italiane fugge in avanti, minacciando di far venire meno un puntello-pilastro alla proprietà nazionale di una delle due big bancarie del paese.

 

Certo, sulla carta, gli enti non avrebbero torto a rivendicare la loro fretta di completare il percorso tracciato nel ‘90. D’altronde la privatizzazione originariamente immaginata dall’economista cattolico Beniamino Andreatta ha condotto a un traguardo che paesi come Germania o Spagna tacitamente invidiano all’Italia: il disimpegno dei portafogli pubblici (soprattutto di quelli degli enti “federali”) da un’esposizione troppo forte all’equity bancario; il mantenimento di aziende strategiche come le banche in un ambito di dinamiche di paese per il rilancio.

 

L’ultima parola sul riequilibrio tra proprietà, governance e gestione dei colossi creditizi giungerà però molto presto: lunedì – come ogni 31 maggio – il Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, modulerà come di consueto giudizi e sollecitazioni all’infrastruttura finanziaria portante del paese.

 

Difficile che possa chiedere altri passi indietro alle Fondazioni, tra l’altro molto vicine al ministro dell’Economia Giulio Tremonti. Non è escluso che invece insista sulla necessità di preservare la natura di “imprese private di mercato” alle grandi banche. Ma in trincea ci sono i Ceo, primi fra tutti Passera e Alessandro Profumo (che ha condotto in porto ben due ricapitalizzazioni con il supporto decisivo delle fondazioni).

 

Per questo il punto di vista davvero finale – che non è escluso possa giungere a cavallo dell’Assemblea Bankitalia – sarà molto probabilmente quello del presidente dell’Acri, Giuseppe Guzzetti: per ora in calendario per il 10 giugno in Parlamento, alla X Giornata delle Fondazioni.