Meno di un mese fa il Financial Times sollevò un vespaio candidando Mario Draghi alla presidenza della Generali. Il nome del Governatore della Banca d’Italia, in verità, fu speso in modo un po’ spericolato, mentre ancora risuonava l’eco della campagna internazionale d’opinione a favore di Draghi successore di Jean Claude Trichet al vertice Bce.
Ma la City – sempre obbligatoriamente attenta alle vicende del Leone – voleva in ogni caso rintuzzare con un nome fortemente credibile l’avanzata di Cesare Geronzi su Trieste e la “blindatura” italiana – poi effettivamente completata – su una delle maggiori istituzioni finanziarie europee.
Né va trascurato che il presidente uscente Antoine Bernheim era senior partner di Lazard, quando la storica banca d’affari – ponte tra la finanza ebraica sulle due sponde dell’Atlantico – era socio-chiave di Pearson, editore del Financial Times.
Draghi, in ogni caso, come azionista rilevante delle Generali via Fondo pensioni della Banca d’Italia, aveva inizialmente dimostrato forte sensibilità per il mantenimento della formula public company internazionale (anche se nell’ultimo round è spiccato il suo silenzio-assenso finale a un consiglio votato dal 38% di fatto “di concerto”, e quindi in violazione sostanziale del Testo unico della finanza firmato dallo stesso Draghi e ispirato alle ragioni liberiste dei mercati globalizzati).
Candidando il leader del Financial Stability Board al vertice di uno dei pilastri del sistema finanziario internazionale, il FT aveva in ogni caso colto un “spirito dei tempi”, quasi alla vigilia del deflagrare del caso Goldman Sachs. In una fase critica dell’exit strategy – quando finanza pubblica e privata confondono definitivamente le loro acque tempestose come nell’emergenza greca – le vecchie muraglie cinesi (ammesso che abbiano mai operato) hanno perduto senso.
E per paradosso un banchiere centrale può rivelarsi un buon gestore del rilancio di istituzioni finanziarie private, mentre – al contrario – la ricostruzione della vigilanza finanziaria potrà avvalersi di banchieri privati, conoscitori di quella complessità finanziaria da molti anni sfuggita di mano ai tradizionali supervisori-burocrati delle authority nazionali o globali.
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In concreto, riguardo la prima situazione non era (non è) certamente il caso delle Generali, che non sono state salvate di peso dai Governi come il gigante americano Aig o come Fortis, il colosso bancassicurativo del Benelux. Invece, proprio all’indomani della storica “grigliata” di undici ore dei vertici della Goldman Sachs al Senato, non è inverosimile candidare un ex banchiere della Goldman divenuto banchiere centrale – come Mario Draghi – alla guida di quella che rimane una sorta di “banca centrale del pianeta”.
Una banca che va trattata in quanto anche “sotto processo” e non per timore reverenziale nei confronti dei suoi vertici. Non hanno tutti i torti le voci (anche quelle apertamente strumentali) levatesi in difesa della Goldman, che nell’arco di dieci giorni si è ritrovata sotto azione civile per frode della Sec, alla berlina in Parlamento, sotto indagine penale da parte della Procura distrettuale di Sud Manhattan (quella che ha competenza su Wall Street).
In Italia qualcuno parlerebbe di giustizia a orologeria (anche se il “partito Goldman” tra Roma e Milano annovera normalmente i supporter della magistratura…ma questo è un altro discorso) .
Certo, quasi 600 giorni dopo il crack della Lehman Brothers, l’improvvisa accelerazione politico-giudiziaria dell’amministrazione Obama contro la regina delle banche di Wall Street odora di demagogia, anche se il fine (il varo della riforma bancaria) giustifica probabilmente i mezzi.
In ogni caso, la “restituzione” della Goldman Sachs al suo ruolo – investment bank globale in concorrenza con altre sul mercato – non può essere lasciata alla demagogia politico-giudiziaria, con il rischio di una “vendetta” pura e semplice che punisca solo qualche colpevole ma non estirpi le radici della “malafinanza” che ha provocato la peggior crisi economica di sempre.
Il “risanamento” della Goldman – auspicabilmente simbolico – non richiede altri aiuti pubblici, ma risorse più preziose: la capacità politica di ripristinare corretti equilibri tra mercato e poteri pubblici, tra economia e istituzioni. Dal vertice Goldman, Hank Paulson si è metaforicamente trasferito al Tesoro Usa, certificando prima la resa della politica al banking e poi il collasso definitivo dei mercati.
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È forse un po’ utopistico – ma non paradossale – immaginare che dal sistema istituzionale della finanza un personaggio globale come Draghi si trasferisca al vertice della Goldman e si assuma la responsabilità di fare un falò di tutti le vanità (gli illeciti, gli azzardi morali, le ambizioni inquinatorie dell’economia e della democrazia). Non sarebbe una “mission” inferiore a quella di presidente della Bce: ormai preclusa a Draghi proprio per il suo passato alla Goldman e a maggior ragione dopo la svolta “tedesca” nell’Eurozona alla stretta sulla crisi greca.
Proprio con un top manager italiano – Sergio Marchionne su Fiat-Chrysler – l’establishment statunitense ha mostrato capacità di utilizzare leadership europee per gestire emergenze imprenditoriali di rilievo politico. Se e quando Lloyd Blankfein getterà la spugna da Goldman (cioè quasi sicuramente e più presto di quanto si creda) sarà interessante vedere se FT e Wall Street Journal (che spese un’intera prima pagina di endorsement per Draghi alla Bce) avranno il coraggio di puntare su un banchiere “pubblico e privato” che preserverebbe davvero le ragioni del mercato e non si limiterebbe a difendere solo gli interessi dei mercanti.