La presenza del Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, a una cena-Vip a casa di Bruno Vespa ha fatto alzare qualche sopracciglio (recita così il gergo dei banchieri centrali). Anzi: un ministro-Vip come il titolare leghista dell’Interno, Roberto Maroni, si è apertamente scagliato contro il ritorno della “politica dei salotti”.
Draghi a casa di Vespa (Vip Rai per eccellenza e conduttore-padrone di “Porta a porta”, soprannominata “terzo ramo del Parlamento”) e commensale del premier Silvio Berlusconi, del presidente delle Generali, Cesare Geronzi e del segretario di Stato cardinale Tarcisio Bertone, è certamente una notizia, ma non “scandalosa-in-sé”.
Anzi: un banchiere centrale – italiano, europeo, statunitense – che “non fa politica” è un’anomalia (o un’ipocrisia, a seconda dei punti di vista). Guido Carli è stato uno dei piloti dell’Azienda-Italia per quarant’anni: dal boom, alla costruzione del Mec, alla programmazione gemella del centrosinistra, all’autunno caldo sindacale, all’iperinflazione petrolifera, alla liberalizzazione della finanza, alla privatizzazione bancaria. Numero 1 in Via Nazionale, presidente di Confindustria, ministro “senior” con Giulio Andreotti dopo esserlo stato in gioventù, coi governi centristi degli anni ’50, Carli fu un democristiano sempre protagonista, sempre rispettato.
Carlo Azeglio Ciampi è passato da Palazzo Koch a Palazzo Chigi, poi è stato il ministro del Tesoro che ha battezzato l’euro, e ha ricevuto in premio finale il Quirinale: un laico-azionista da sempre, assai più che un semplice tecnico e i libri di storia italiana non se ne dimenticheranno e non certo per accusarlo di non aver rispettato i ruoli del momento, per non aver capito i diversi modi di “fare politica” di un banchiere centrale.
Chi invece ha pagato uno scotto altissimo all’oggettiva propensione a “fare poliica” del govenatore è’ stato il predecessore di Draghi: Antonio Fazio. Cattolico, “eurotiepido”, dirigista in campo bancario, ingaggiò (ma è avvenuto praticamente ieri) una duplice battaglia: contro una Mediobanca troppo nordista e cosmopolita tendenzialmente preda dei colossi milanesi UniCredit e Intesa Sanpaolo; e poi direttamente contro i giganti esteri (Abn Amro all’attacco di AntonVeneta e BBva su Bnl).
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Si appoggiò alla parte meno presentabile del sistema finanziario (Popolare Lodi, Unipol, gli immobiliaristi), fu cacciato, finì sotto processo. Ma la storia – quanto meno quella economica – ha dato ragione al “politico” Fazio: la finanza globale aveva i piedi d’argilla (o peggio); l’economia italiana (a cominciare dalla disastrata Fiat) aveva bisogno delle “sue” banche, che era meglio si tenessero alla larga dal “turbomercati”.
A Fazio vennero via via rimproverate tante cose: ad esempio la voglia di “far politica” per davvero, mettendosi alla guida di un possibile centro cattolico. Per questo faceva alzare molti sopraccigli quando si accompagnava di frequente (soprattutto per gli spostamenti in aereo privato) a Cesare Geronzi, allora presidente di Capitalia: lo stesso Geronzi che, a casa Vespa, avrebbe partecipato a un summit politico assieme al successore di Fazio, ex top banker della Goldman Sachs Mario Draghi.
L’obiettivo? Capire, si sussurra, se l’Udc può fare da puntello al governo messo sotto pressione dal “ribellismo” di Fini ma soprattutto dalla determinazione di Giulio Tremonti, ormai “premier ombra” del “grande fratello leghista” Umberto Bossi. Chi ha – più che presumibilmente – coinvolto Draghi? Il sottosegretario alla Presidenza Gianni Letta: senior advisor della Goldman Sachs per l’Italia, come lo furono del resto in passato personaggi del calibro di Romano Prodi e Mario Monti.
Draghi – banchiere Goldman proprio per questo un po’ indebolito nella corsa alla Bce – può essere il personaggio giusto per un possibile rimpasto di governo? Addirittura come “premier istituzionale” per un “ribaltino” pilotato dallo stesso Berlusconi? Tutto è possibile dopo il “ghe pensi mi” del Cavaliere e le avvisaglie di resa dei conti all’interno del centrodestra: non da ultimo quando Berlusconi può sentire più forte l’esigenza di sganciare i settori più compromessi nella “piccola Tangentopoli” del 2010.
Certo, la resa dei conti “strutturale” resterebbe quella tra Draghi e Tremonti: il secondo divenuto ormai vero “banchiere dei banchieri” grazie ai rapporti sviluppati con tutti i Vip del Nord tra credito, Fondazioni, Cassa depositi e prestiti. Un Tremonti – neppure troppo curiosamente – rigorista nei conti pubblici quanto sarebbe piaciuto a un Carli o a un Ciampi: sempre alle prese con ministri del Tesoro lassisti come potevano esserlo quelli del quadri o pentapartito nella prima repubblica.
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Naturalmente c’è tanta politica anche dietro la manovra del super-ministro dell’Economia. C’è il tentativo di avanzata finale della Lega come vera “erede epocale” della Dc, come forza politica interclassista dell’“Italia che produce”.
Non sorprende che Draghi – erede culturale-morale della minoranza laica (Pri-Pli) che tra Bankitalia, Mediobanca e le Bin condizionava la politica in Italia come la Goldman negli Usa e poi sullo scacchiere globalizzato- abbia accettato di sedersi a una cena che tanto è assomigliata a una “situation room” di poteri in difficoltà.
È, naturalmente, “politica” vera e può esserlo perfino della migliore: a patto, però, di lasciar perdere (definitivamente) categorie logore, a cominciare dalla rozza distinzione tra “tecnici” (per definizione “buoni”) e “politici”.