Con la sottoscrizione integrale della tranche opzionale (“greenshoe”), l’offerta iniziale della Agricoltural Bank of China presso le Borse di Shanghai e Hong Kong è divenuto il maggior collocamento azionario della storia: 22,1 miliardi di dollari il controvalore. L’operazione era stata lanciata a metà luglio e l’esito era stra-annunciato.

Ma tant’è, e sarebbe un errore ignorare il record statistico o circoscrivere l’analisi a un dato macroeconomico di lungo periodo (la lunga marcia quotidiana del Drago nello sviluppo globale) o microfinanziario: cioè l’altalena iniziale del titolo attorno al prezzo di quotazione e tutti le “anomalie cinesi” (un doppio prezzo a Shanghai e Hong Kong e le agevolazioni date dalle autorità di Pechino a una “loro” operazione, a cominciare dal sostegno dato dai fondi d’investimento statale).

Per l’America e per l’Europa, per Wall Street e per la City conta invece di più che qualcosa che tutti hanno riconosciuto come “offerta iniziale di Borsa” abbia mobilitato la più alta montagna di “soldi veri” su un mercato diverso da Wall Street e dalla City, da Parigi e da Francoforte. Ma più rilevante ancora è che, a mille giorni dallo scoppio della Grande Crisi, la Cina abbia animato i mercati azionari chiedendo capitali per una banca, cioè per la categoria d’azienda che ha provocato il dissesto della finanza globale e la recessione; per le istituzioni che gli stati occidentali hanno dovuto salvare a colpi di decine di miliardi di euro o di dollari; e per le quali stanno affannosamente cercando cifre analoghe per togliere i puntelli pubblici e ricostituire in fretta le basi patrimoniali.

Tanto che mentre Pechino quotava AG Bank (e non è stato un esordio assoluto: poco prima è venuta la China industrial and Commercial Bank con un’Ipo da 19 miliardi di dollari), l’Unione europea ha dovuto pubblicare un discusso “stress test” su 91 grandi banche dell’area. Dal canto loro gli Stati Uniti hanno cercato di accelerare l’exit strategy con una riforma bancaria che certamente non sollecita l’investimento in titoli del settore, mentre la Goldman Sachs ha simbolicamente pagato per tutti una super-multa da 550 milioni di dollari alla Sec.

Mediobanca – in uno stress-test condotto dai suoi analisti – ha d’altronde stimato in 105 miliardi il fabbisogno patrimoniale dei grandi gruppi creditizi europei: la rotta è quella indicata da “Basilea 3”, che anche nella versione aggiornata tiene fermo il diktat sul miglioramento dei requisiti di capitale. Ma la nuova regolamentazione sulla vigilanza prudenziale continua a essere duramente contestata (per esempio in Italia) dai sistemi imprenditoriali e anche dai governi: le imprese soprattutto piccole e medie lamentano il razionamento del credito proprio durante la fase più dura della recessione e l’inizio di una ripresa in cui sarà comunque più serrato il confronto competitivo con le economie post-emergenti (capeggiate dalla stessa Cina).

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L’Ipo AgBank parla da sola: i mercati finanziari internazionali hanno trovato 22 miliardi freschi per dare più forza a una banca che ha 320 milioni di clienti nell’economia del Dragone. Tra i nuovi investitori ci sono fondi sovrani mediorientali (della stessa famiglia di quelli che per la verità hanno acquistato il 2% di UniCredit), ma anche banche orientate alla produzione e al commercio agroalimentare, come l’olandese Rabo, che ha effettuato quindi un investimento strategico.

 

Val la pena di notare che questi capitali sono stati impiegati a più bassi standard di trasparenza finanziaria e vigilanza bancaria e in uno contesto politico-economico che resta lontano da quelli democratico-liberisti.