Anche un tecnocrate per eccellenza come Tommaso Padoa-Schioppa afferma con forza (ieri sul Corriere della Sera) che la resa dei conti su Basilea 3 va ben «al di là delle scelte tecniche» che il Comitato di Basilea ha messo a punto in via definitiva nel fine settimana. In fondo poco conta – sottolinea l’ex senior member italiano del board Bce – che il Tier 1 venga collocato al 6% o a un livello inferiore; poco conta la sua rimodulazione interna tra componenti «core» e «leggere» della base patrimoniale; e perfino uno scadenzamento più o meno stretto dell’entrata a regime (tra il 2012 e la fine del decennio). Quello che è importante è che «il mercato» (cioè l’intera economia reale alla ricerca di una ripresa) non venga penalizzato dalla necessità – certamente improrogabile – di rimettere ordine nel sistema bancario dopo la Grande Crisi.
E’ per questo i «tecnici» (cioè i banchieri centrali del G-10) non bastano: ci vuole la Politica con la «p» maiuscola, anche se questa dovrà esprimersi attraverso la virtualità-kolossal del G-20 di Seul in novembre. Non possono essere i banchieri centrali – soprattutto quelli in passato troppo «proni al fascino del libero mercato», sferza Tps – a mettere in riga i «colleghi» a capo delle banche private: i quali hanno troppa fretta di tornare al «business as usual», facendo dimenticare di essere stati tenuti in vita artificialmente da iniezioni gigantesche di aiuti pubblici. Non tutti, per la verità, sottolinea Padoa-Schioppa: e quelli che faticosamente ce l’hanno fatta senza ricapitalizzazioni (come ad esempio l’italiana Intesa Sanpaolo), con raccolta di mezzi freschi sul mercato privato (come l’italiano UniCredit) o con il ricorso limitato ai Tremonti-bond (come il Montepaschi e il Banco Popolare) rischiano di essere penalizzati due volte. E di penalizzare a valle le imprese con un razionamento del credito che si annuncia pericolosissimo per sostenere le imprese nel rilancio competitivo dell’economia globale.
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Ecco perché – in modo inusuale – Confindustria e altre organizzazioni imprenditoriali, Abi e Governo si ritrovano sostanzialmente assieme nel criticare Basilea 3: o meglio – come ancora una volta ha chiarito Padoa-Schioppa – nel denunciare una manovra di ri-regolazione e ricostruzione della vigilanza che viene presentata come manovra anti-crisi e invece è ancora troppo compromessa con la finanza globale di mercato (almeno con quella che ha fallito, dolorosamente per tutti). E l’Azienda-Italia può essere un caso esemplare di come gli errori e i disastri di Wall Street abbiano scompigliato circuiti finanziari più bancocentrici e in quanto tali meno esposti alla finanza strutturata e oggi ricadano nuovamente sui rapporti credito-impresa in termini di vincoli esageratamente stretti per la statistica del mercato bancario domestico.
Perché una banca territoriale italiana – uscita con le sue gambe dalla crisi – non può finanziare a dovere un’impresa territoriale italiana che si è dimostrata affidabile e che lotta per restare sul suo mercato? E’ la finanza di mercato – sfuggita a ogni controllo – ad aver bisogno di una «legge bavaglio», non l’attività creditizia. E’ quanto – in modo forse brutale e affrettato – ha provato a fare Barack Obama negli Stati Uniti: tornando a imporre una separazione più netta tra Borse e banche.
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Basilea 3 – nella sua versione «politica» finale – deve trarre in modo compiuto le conseguenze della critica alla globalizzazione: l’idea che il finanziamento a un artigiano e quello «a leva» a una maxi-Opa a Wall Street devono sottostare alle stesse regole: l’idea che la Goldman Sachs e una banca di credito cooperativo debbano «vigilarsi» con gli stessi parametri continuano a risentire di una premessa implicita sempre più discutibile: che la banca territoriale sia un passato da cui allontanarsi e la finanza globalizzata l’unico futuro possibile verso cui convergere. Quando il Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi – sempre più nelle vesti di presidente del Financial Stability Board – difende la sua «Basilea 3» recita sicuramente una parte necessaria, anche se questo complica oggettivamente il peso della posizione italiana al tavolo politico decisivo.
Toccherà al ministro Giulio Tremonti – teorico di nuovi «global standard» politico-economici – rappresentare al G-20 gli interessi italiani – prevedibilmente allineati a quelli di un’Europa tedesco-centrica: quel rigoristico «modello tedesco» che Padoa-Schioppa (prima che Draghi si accodasse) indicava come la via maestra non più tardi di una settimana fa a Cernobbio.
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