La (probabile) nomina di Andrea Orcel a successore di Alessandro Profumo come amministratore delegato di UniCredit farà arricciare più di un naso. Orcel è un classico esponente di quella “Prima Repubblica del Mercato” che di questi tempi è – o dovrebbe essere – al bando.
Il banchiere di origini italiane è da tempo uno dei tanti apolidi arruolati dal Sistema Wall Street: ha lavorato a lungo in Merrill Lynch, una major salvata un passo prima di fare la fine di Lehman Brothers attraverso una fusione con Bank of America. Per di più Orcel – si dice – ha avuto un ruolo nel passaggio più controverso dell’“eutanasia” di Merrill: l’assegnazione di bonus finali multimilionari al Ceo John Thain e ai suoi samurai nel dicembre 2008, quando il sistema bancario americano era sorretto dal peso dagli aiuti pubblici.
Perché un personaggio così approda ai vertici di Piazza Cordusio dopo l’uscita-choc di Profumo? È presto detto: fu la Merrill di Orcel a tenere a battesimo, nel 1998, la nascita di UniCredit, la fusione tra il Credito italiano e Unicredito, che allora era la holding tra le Casse di Verona, Torino e Marca Trevigiana. Arrivò dalla Merrill Lynch la “explosive offer” che mise d’accordo il giovane ma rampante Profumo con i soci privati del Credit (da Pesenti a Del Vecchio, da Maramotti ad Allianz) con le grandi Fondazioni “outsider” di Verona (Paolo Biasi) e Torino (Fabrizio Palenzona).
“Offerta esplosiva”: nel gergo dei banchieri d’affari è l’idea-petardo che la Merrill, la Lehman Brothers o la Goldman Sachs di turno fanno detonare al centro di un tavolo. Dodici anni dopo, Orcel potrebbe essere chiamato a capo di quel tavolo – a fianco del presidente tedesco Dieter Rampl – ufficialmente perché in possesso dell’identikit di banchiere internazionale e della consolidata fiducia delle Fondazioni italiane, “tradite” dal Profumo che aveva aperto le porte alla scalata degli investitori sovrani libici.
L’Azienda-Germania (vera azionista di riferimento di UniCredit dopo la fusione con Hvb) è garantita da Rampl, il quale prevedibilmente manterrà alcune deleghe. La promozione di Roberto Nicastro – il più anziano dei “Profumo boys”, oggi a capo delle attività retail del gruppo – dovrebbe tranquillizzare l’immenso apparato aziendale (150mila dipendenti in 22 paesi), nonché la Banca d’Italia. Uscirebbero tra l’altro di scena (quanto meno dalla ribalta) gli altri due “deputy Ceo” di Profumo: Paolo Fiorentino, il capo delle attività “corporate”, ritenuto il più vicino alla componente romana entrata nel gruppo con la fusione di Capitalia; e Sergio Ermotti, il capo dell’unità di investment banking, la più colpita dall’uragano della finanza strutturata.
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Ma Orcel abbandonerà definitivamente la ricercata divisa del banchiere d’affari di una per indossare quella più ruvida e ingegneristica di top manager di una gigantesca banca territoriale europea? Non sono pochi quelli che pensano che al nuovo Ceo di UniCredit venga chiesto di occuparsi di una nuova “explosive offer”: in un senso ancora più letterale di quella che mise definitivamente in orbita la stella di Profumo nei cieli del banking internazionale.
Nessuno dimentica che Hvb fu affidata nel 2005 a Profumo per essere strutturata, e fors’anche per tenere sotto controllo l’avanzata più precoce e dinamica del sistema creditizio europeo nei paesi dell’Est: giusto quella di UniCredit che già nel 2000 si era aggiudicato con un blitz la polacca Pekao. Ora il lavoro organizzativo è in parte compiuto (anche se i portafogli crediti e titoli si sono nel frattempo riappesantiti); dall’altro lato il “rischio Italia”, visto da Monaco di Baviera o da Berlino è tornato visibile. Non in termine di rating, ma di complessità politico-economica. La scalata libica è stata concepita da ambienti vicini al premier Silvio Berlusconi e a Cesare Geronzi, oggi presidente delle Generali dopo esserlo stato di Mediobanca in virtù del discusso apporto di Capitalia a UniCredit approvato da Profumo.
L’esito finale del “caso Profumo”, in ogni caso, ha riportato sotto i riflettori le Fondazioni italiane, il cui peso sembrava in declino. Profumo – per certi versi – è stato allontanato dal vertice della banca su cui regnava incontrastato da quindici anni dal sindaco di Verona, Flavio Tosi, più che un astro nascente nei cieli padani della Lega Nord. Ha messo sotto accusa il Ceo di Piazza Cordusio con una campagna in tre punti: no ai libici (ma anche ai Palazzi romani) nel “nostro” UniCredit; no al piano di integrazione interna “bancone” se costa esuberi nel Veneto; no a un UniCredit sempre più globalizzato se fa mancare credito alle imprese del Nord Italia e se le infetta di derivati.
Probabilmente non è una ricetta di gran gusto per le Borse (che però oggi arrancano di loro). Difficile d’altronde contrapporre con successo all’opinione pubblica di Milano e dell’Italia settentrionale i disegni geopolitici del Cavaliere con il Colonnello Gheddafi. Tutto questo, in ogni caso, non può essere di facile gestione per Rampl e per la Germania, che si sentono proprietari dell’“altra metà” di UniCredit.
Di qui l’ipotesi che UniCredit possa essere di nuovo battistrada sulla scena bancaria europea., nell’inaugurare una stagione di “de-merger”, di “de-globalizzazione”, di “downsizing”, di ridimensionamento. Il gruppo si spezza in due: Hvb (e tutte le controllate nei paesi dell’Est europeo, fino alle repubbliche ex sovietiche dell’Asia) ritorna tedesca (e potrebbe portarsi dietro un pacchetto di filiali italiane, come Credit Agricole ha rilevato Cariparma sganciandosi da Intesa Sanpaolo) .UniCredit Group, d’altra parte, torna “UniCredito italiano”: una grande banca nazionale.
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Le attività di finanza di mercato – oggi sacche di perdite e di rischi da disinnescare – vengono fortemente ridotte. La piattaforma di asset management Pioneer è già in vendita: in fila per comprarla ci sono tutti i grandi gruppi francesi (a meno che una parte non venga messa a fattor comune con Intesa in Eurizon). Non improbabile che venga reciso anche l’ultimo cordone ombelicale di Mediobanca con un partner bancario: le critiche aperte di Geronzi alle Fondazioni “leghiste” in questi giorni sono state un segnale inequivocabile della preoccupazione dell’attuale vertice del Leone per la nuova instabilità ai vertici di Mediobanca, che resta il primo azionista a Trieste.
Vincent Bolloré, il capofila dei soci francesi in Piazzetta Cuccia, ha dato del resto molto risalto all’autorizzazione ricevuta dal patto Mediobanca a salire fino al 6%. Con un UniCredit ridivenuta più “tedesca” e più “padana” è fatale che le Generali a guida romana cerchino lo stesso arrocco francese che tentò Vincenzo Maranghi con Mediobanca. Ma da qui in poi ricomincia l’eterna fantafinanza italiana.