Con la designazione del cardinale Attilio Nicora, giurista lombardo laureato alla Cattolica, la Santa Sede ha subito dato piena operatività alla nuova Autorità di informazione finanziaria (Aif): l’organismo di vigilanza sui flussi finanziari che attraversano il Vaticano e in particolare lo Ior.

L’Aif sarà quindi una sorta di “banca centrale” della Santa Sede, definendo meglio l’operatività della stessa “banca nazionale” (l’Istituto per le opere di religione) e di altre istituzioni pontificie come l’Amministrazione del patrimonio della Santa Sede (Apsa), il Governatorato dello Stato pontificio o la stessa Propaganda fide.



Con l’adozione di questo ordinamento e l’attivazione di nuove strutture la Santa Sede è rientrata nella cosiddetta “white list” Ocse: d’ora in poi farà quindi parte della comunità dei paesi che rispettano gli standard internazionali di lotta al riciclaggio di capitali e all’evasione fiscale.

Non è la tecnicalità della riforma varata da papa Benedetto XVI a meritare una riflessione in questa nota settimanale. Né lo merita – in dettaglio – il riequilibrio degli assetti della finanza vaticana: la promozione di Nicora a “banchiere centrale” (con un ruolo di garanzia molto simile a quello assegnato a Paul Volcker dal presidente Obama nel vortice della grande crisi) apre quasi sicuramente la successione all’Apsa, cioè alla guida della gestione di asset stimati in più di 5 miliardi di euro.

E se la nomina di Nicora è un riconoscimento oggettivo alla “scuola lombarda” della finanza cattolica (quella che ha tuttora le sue punte di diamante in personaggi come Giovanni Bazoli e Giuseppe Guzzetti), a beneficiare della riforma è soprattutto lo Ior, affidato da poco a Ettore Gotti Tedeschi.

L’istituto era stato preso di mira da alcune inchieste della magistratura italiana per operazioni ritenute poco trasparenti. Quasi trent’anni dopo il dramma del crack Ambrosiano, il Vaticano erige un baluardo definitivo a difesa della sua immagine e della bontà di fondo della conduzione delle “opere di religione” e dell’utilizzo degli strumenti finanziari per il bene della Chiesa e della sua missione.

 

Negli stessi giorni, in ogni caso, l’Europa ha aperto i battenti delle nuove authority finanziarie sovranazionali istituite come risposta di lungo periodo al collasso dei mercati nel 2007-2008. Esma, Eba, Eiopa (rispettivamente dedicate a coordinare la supervisione su Borse, banche ed enti assicurativi e previdenziali) nascono come strutture burocratiche: l’Italia può rallegrarsi di aver visto un brillante dirigente di Bankitalia, Andrea Enria, approdare al vertice dell’Eba.

 

Ma, per quanto bravi, non saranno i tecnocrati di una Ue a 27 a riordinare davvero i sistemi finanziari, a ridare stabilità e solidità alle istituzioni bancarie, a proteggere i risparmi dei cittadini, a favorire con il credito le imprese che devono rilanciarsi o che vogliono svilupparsi. Anche l’euro – direbbe Papa Ratzinger, strenuo propugnatore del riconoscimento costituzionale della cristianità dell’Europa – «non è una grande idea o una decisione etica, ma un’avvenimento».

 

Era l’incipit della “Deus caritas est”, la prima enciclica di Benedetto XVI. La successiva “Caritas in veritate”, una lettura della grande crisi economico-finanziaria, ha puntato il dito contro l’alienazione delle moneta e della finanza dal bene comune che – certamente per la Chiesa – resta l’esperienza fondamentale della «famiglia umana». E’ su questo sfondo che va correttamente apprezzato il passo della Santa Sede: che entra con pienezza nella comunità finanziaria internazionale anche per accelerare – nel suo ruolo – una riforma complessiva dei mercati finanziari.

 

Che «semper reformandi sunt» anche se stuoli di leader al G-20 e di tecnocrati al Fondo monetario internazionale e nelle sue succursali sono impegnati a tempo pieno da tre anni. La Chiesa – tacciata da sempre di ritmi secolari – il suo contributo d’esperienza, questa volta, lo ha voluto dare con più “sollicitudo rei socialis”, come recita una delle grandi encicliche di Giovanni Paolo II.