UniCredit appare oggi, per molti versi, un’iper-metafora del paese. A Piazza Cordusio, il quindicennale “regime” di Alessandro Profumo è caduto da ormai cento giorni, ma un assestamento proprietario e manageriale della prima banca italiana (una delle prime dieci in Europa) sembra ancora lontano. Anche nei dintorni di Palazzo Chigi l’aria che si respira è quella della fine incombente di un altro impero: originato – guarda caso – nella stessa turbinosa metà degli anni ‘90.
Perché ciò che ha accomunato Silvio Berlusconi e Alessandro Profumo – diversissimi tra loro – è una leadership forgiata in quella rigenerazione traumatica del sistema-paese che mescolò Mani pulite e privatizzazioni, tramonto rovinoso dei partiti e ascesa ruggente del mercato, caduta dei muri, rimescolamento geopolitico e competizione globale (Profumo, solo per fare un esempio, ha guardato all’Est europeo già prima che Berlusconi diventasse amico di Putin).
In UniCredit, nel frattempo, il vero erede di Profumo non è ancora arrivato, e probabilmente non arriverà ancora per un po’. Federico Ghizzoni – nominato amministratore delegato tre mesi fa – appare sempre più un’esperta figura di garanzia: in attesa che – verso la scadenza del consiglio in carica, nel 2012 – si sciolgano almeno alcune delle incognite sul futuro del gruppo.
Però ha fatto qualche impressione, tre giorni fa, sentire Ghizzoni dire che la sua banca “guarda prima ai clienti e poi agli azionisti”: se non è un’abiura del verbo profumiano (per il quale la creazione di valore per l’azionista era il comandamento unico e ultimo, incorporando come mezzo la qualità del servizio al cliente) poco ci manca. E sarà soltanto un caso, ma ad affermare un concetto forse più caro al mondo del credito cooperativo e territoriale, è un dirigente bancario di origine piacentine e formatosi nel Credito italiano prima della “rivoluzione profumiana”, squisitamente mercatista e globalista.
La svolta impressa a UniCredit dalle fondazioni “padane” (Torino e soprattutto Verona, sotto la spinta del sindaco leghista Flavio Tosi) sembra dunque aver lasciato segni tutt’altro che superficiali: diversi, comunque, dalla tradizionale “occupazione” di un’impresa da parte di una forza politica. Dipanando, per gioco, il filo dell’iper-metafora, il “leghismo bancario” che si va realizzando a ritmi serrati (anche attraverso l’ingresso delle stesse Fondazioni Cari Verona e Crt nel Banco Popolare) ha le stese radici dell’aperta autocandidatura del ministro dell’interno Roberto Maroni alla guida di un governo di centrodestra che superi il berlusconismo.
Gli accenti dell’intervento di Maroni sul “Corriere della Sera” di ieri non sono in fondo così diversi dalle “verità” – apparentemente banali e scomode – affermate da Tosi nella sua campagna contro Profumo: UniCredit è una banca italiana, deve rimanere al servizio delle imprese italiane e deve continuare a dare lavoro agli italiani. E, per paradosso, azionisti collegati con enti locali e territori come le Fondazioni tornano ad avere più potere-dovere di guidare una grande azienda di quanto ne abbiano gli investitori di mercato, pilotato dall’esasperata ricerca del dividendo e del guadagno speculativo in Borsa nel brevissimo periodo. Anche Maroni può essere parso banale nel ricordare (a Berlusconi) «la necessità di provvedere ai problemi del paese» e può essere sembrato ruvido nel porre la seguente questione: chi l‘ha detto che un leghista non può guidare un governo democratico in Italia?
Tutto questo è avvenuto mentre gli investitori sovrani libici hanno arrotondato la loro quota in Finmeccanica fino al 2%. Sono gli stessi azionisti che, l’estate scorsa, hanno rastrellato fino al 7% di UniCredit, provocando la crisi che ha defenestrato Profumo. Una crisi che ha fatto emergere – sul terreno finanziario – la durezza del confronto strutturale nel centro-destra: non quello latente tra Forza Italia e An nel nuovo Pdl, ma quello tra “nocciolo duro romano” del Pdl – concentrato attorno al sottosegretario alla presidenza Gianni Letta – e Lega “di governo”: sia essa rappresentata dal supertecnico Giulio Tremonti all’Economia, dal capo del Viminale Maroni, dal negoziatore federalista Roberto Calderoli, dai governatori Zaia e Cota, dal super-sindaco Tosi (che ha ingaggiato una battaglia diretta nell’azionariato di Unicredit contro la Libia di Gheddafi, grande partner dell’Italia berlusconiana).
Da allora tutte le partite di establishment sono risolte a favore di questo aggregato: ultimissima quella – apparentemente laterale – della nomina del tremontiano Guido Bortoni a capo dell’Authority dell’Energia (sconfitto il candidato lettiano Giampiero Massolo). Due mesi fa Tremonti l’aveva avuta vinta nell’ancora più strategica nomina alla Consob: imposto il viceministro all’Economia Giuseppe Vegas. Fermato il super-burocrate lettiano Antonio Catricalà, capo dell’Antitrust: non diversamente da come le fondazioni del Nord hanno stoppato la crescita in UniCredit dei soci libici legati a Tarak Ben Ammar, plenipotenziario berlusconiano in Mediobanca e Generali.
L’iper-metafora sembra destinata a continuare. E si arricchirebbe di un capitolo clamoroso se, tra qualche settimana, Tremonti (in un governo Berlusconi o addirittura in un governo Maroni) candidasse proprio Profumo alla guida di una delle grandi aziende pubbliche: Eni, Enel, Poste, Finmeccanica. I cui pacchetti azionari di controllo pubblico sono in parte custoditi nella Cassa Depositi e Prestiti: una joint-venture tra il Tesoro e 66 Fondazioni bancarie dell’Acri. L’anti-Mediobanca del XXI secolo.