Se “il mercato ha sempre ragione”, la chiusura euforica di Piazza Affari, ieri, ha confermato che il sistema bancario italiano è più solido di quanto non lo si dipinga. I rialzi netti e generalizzati sul listino da parte di tutte le big italiane del credito – UniCredit, Intesa Sanpaolo, Mps, Banco Popolare, Ubi – non sono perfettamente aderenti alle “stime” dell’Eba (l’authority presieduta dall’italiano Andrea Enria), subito rilanciate dalla Banca d’Italia. Il fabbisogno di nuovo capitale per raggiungere il nuovo target del 9% di Core tier 1 entro il giugno 2012 è di circa 15 miliardi: un’indicazione “preliminare”, ha subito sottolineato Via Nazionale, praticamente alla sua prima dichiarazione ufficiale sotto il governatorato di Ignazio Visco. Un’indicazione aggregata e non lineare, a leggere la raffica di comunicati da parte delle singole istituzioni: “Nessun fabbisogno” segnalato da Intesa; 7,4 miliardi per UniCredit (ma ridotti a 4,4 considerando gli strumenti subordinati), giudicati “gestibili” da parte dell’Amministratore delegato Federico Ghizzoni); 3 miliardi per Mps, la cui Fondazione ha già preventivato un problematico indebitamento. “Buffer” inferiori per Banco Popolare (che sta valutando la conversione immediata in azioni di un recente prestito obbligazionario) e per Ubi (1,5 miliardi, senza attese di “nuovi ricorsi al mercato”). È giù sui binari un aumento di capitale per la Popolare di Milano, con il direttore generale Enzo Chiesa confermato nella continuità manageriale e con Mediobanca a garanzia del collocamento dei nuovi titoli.
Se le banche italiane hanno un problema, si chiama titoli sovrani italiani, non “titoli sovrani greci”. L’investimento di portafoglio in Bot e Btp non ha incorporato “moral hazard” come gli acquisti speculativi effettuati soprattutto dalle banche francesi sui titoli del debito di Atene. In Italia abbiamo assistito – almeno in parte – alla rilettura di un copione vecchio di almeno trent’anni: il “vincolo di portafoglio” che spingeva tutte le banche nazionali (non esclusa la Banca d’Italia) a sottoscrivere titoli pubblici in proprio e per conto della clientela.
In breve: prima che intervenisse la Bce, sono state le banche italiane a sostenere il debito pubblico nazionale. Questo potrà essere scorretto per le regole della finanza globale, ma è anche vero che – questa nota lo ha sottolineato più volte – gli attacchi speculativi contro lo “spread” italiano sono stati alimentati anche da risparmio italiano manovrato da gestori internazionali (“Terreste i vostri soldi presso un gestore che gioca contro il debito dello Stato di cui voi siete cittadini-contribuenti?”). Le banche italiane soffrono dunque delle cosiddette “incertezze della politica” (interna) esattamente come le grandi banche europee soffrono – in parte – dell’oggettiva difficoltà di mettere la parola fine alla crisi greca. Ma – si è già spesso sottolineato – è la prima volta che la finanza globale accusa una crisi sistemica come quella scoppiata nel 2007-2008; è la prima volta che l’eurozona affronta un quasi-default da parte di un paese-membro.
Le misure varate dall’Ue sono comunque utili e tendenzialmente efficaci al risanamento del sistema? Sicuramente sono coerenti con quello che è stato l’approccio europeo (franco-tedesco) alla crisi, diverso da quello statunitense. La crisi bancaria non può essere superata semplicemente mantenendo in vita il sistema bancario e contando che il riaccumulo dei profitti sani i buchi lasciati nei bilanci dagli eccessi della finanza derivata. E i contraccolpi successivi sulle finanze pubbliche e sui cicli economici non possono essere curati da ondate di liquidità: i rischi (ormai quasi verificati) sono quelli di turbolenze speculative sui mercati e di ritorni di fiamma inflazionistici nelle economie.
L’euro-ricetta (abbastanza confermata dall’ennesimo summit) resta quindi: austerity fiscale (e integrazione sostanziale tra le politiche di bilancio, anche a costo di riduzioni di sovranità in paesi-membri del “club”) e risanamento reale del sistema creditizio, attraverso svalutazioni delle attività “illiquide” e ricapitalizzazioni severe. Il fondo Efsf – che si annuncia come una specie di contraltare della Bce come perno e carabiniere dell’Europa “salvata” – è la rappresentazione plastica di una zona politico-economica che vuol continuare a fondarsi su valori “reali”, non “derivati”: su risorse messe effettivamente a disposizione dagli Stati, l’esatto opposto delle virtualissime assicurazioni offerte dai mercati sotto il nome di “credit default swap”.
È chiaro che sul successo dell’exit strategy europea pendono molte variabili: da un lato gli Stati Uniti (in anno elettorale) stanno seguendo un percorso divergente; dall’altro sono ancora tutte da scoprire le mosse del “convitato di pietra” cinese: Pechino sta sostenendo l’euro a difesa delle proprie riserve valutarie e della propria competitività commerciale, ma non ha interesse a un’Europa debole, in lunga recessione. Su scala inferiore, neppure l’Unione europea e l’Eurozona possono permettersi un’Italia troppo “punita” dai mercati per il suo debito elevato: ma l’Italia non può permettersi – come la Grecia – di attendere soccorsi, negoziando le condizioni della propria resa.
Le banche italiane – in questa cornice – “hanno” un problema (il rating sovrano e il giudizio alterno delle Borse) ma non “sono” un problema. Sono una leva per la ripresa, se accettano di giocare per la ripresa del Paese, recuperando la loro funzione strutturale e storica di gestori del risparmio delle famiglie verso il credito alle imprese. Il Paese – pur a corto di credibilità e di potere contrattuale in Europa – tanto più potrà aiutare le “sue” banche se in sede di definizione delle nuove regole nell’eurozona, quanto più terrà fermo un principio: un bilancio pieno di derivati globali “pesa” di più in termini di rischio di un bilancio pieno di crediti a imprese nazionali.