Vittorio Grilli, candidato di Giulio Tremonti al vertice della Banca d’Italia, non ha lavorato mai un giorno in Via Nazionale? Neppure Mario Draghi – pur figlio di un dirigente della banca centrale – vi aveva mai messo piede alla vigilia della “nomination”, sei anni fa. Il Governatore uscente proveniva da quattro anni londinesi alla Goldman Sachs: un punto in più nel curriculum, secondo i sostenitori di una Bankitalia meno chiusa e burocratica di quella di Antonio Fazio; una macchia, secondo i detrattori, timorosi dell’ombra lunga della finanza globale e di conflitti d’interesse non meno pericolosi di quelli che avevano segnato le vicende della popolare di Lodi e Bnl.



In ogni caso, anche Grilli – un “giovane” di 54 anni, pressoché la stessa età dell’allora neo-Governatore Draghi – ha vissuto dal di dentro il grande investment banking per due anni al Credit Suisse. Prima di diventare Ragioniere generale dello Stato e poi Direttore generale del Tesoro (operando con Romano Prodi e Tommaso Padoa Schioppa, prima di ritornare alle dipendenze di Silvio Berlusconi e Tremonti), Grilli era stato principale collaboratore dello stesso Draghi, lui stesso Direttore generale del Tesoro (nei governi Berlusconi I, Ciampi, Prodi, D’Alema e Amato) durante la stagione d’oro delle privatizzazioni. Draghi è economista allevato al Mit, alla scuola del Nobel Franco Modogliani? Beh, Grilli all’estero ci ha insegnato a lungo: a Yale e all’University of London (Draghi ha tenuto cattedra solo in atenei italiani).



Insomma, Grilli sarà pure preferito da Umberto Bossi in quanto “milanese” (Draghi, inutile ricordarlo, è romano), ma il suo identikit sembra in tutto e per tutto “clonato” su quello del presidente designato della Bce: un “civil servant” di profilo bipartisan, accreditato sia nei centri di ricerca, sia tra le istituzioni capitoline, sia sui mercati globali. Non solo per questo l’apparente ”impuntatura” di Tremonti sul nuovo vertice in Bankitalia non sarà di facile soluzione.

I “fondamentali” della candidatura Grilli sono ineccepibili: fors’anche più di quelli di Fabrizio Saccomanni, 68enne direttore generale, con un cursus brillante, tutto interno alla Banca d’Italia, con alcuni distacchi rituali al Fondo monetario, alla Ue, alla Bers. Una figura che – in filigrana – ricorda quella di Carlo Azeglio Ciampi, salito nel 1980 da Direttore generale a Governatore in chiave di stretta continuità dopo il traumatico abbandono anticipato di Paolo Baffi. Il futuro Presidente della Repubblica – “grand commis” modello di Palazzo Koch – non aveva comunque più di 60 anni, parecchi di più del 46enne Guido Carli, divenuto Governatore prima del boom dopo non essersi fatto mancare neppure un’esperienza di ministro del Commercio estero in un governo centrista, negli anni ‘50.



L’età – come il luogo di nascita – non è d’altronde decisiva per occupare una casella-chiave dell’organigramma istituzionale, in una fase delicatissima come quella corrente. E Tremonti può aver certamente insistito nel tenere sul tavolo la carta Grilli in contrapposizione frontale con la candidatura di Saccomanni (costruita da Draghi e tacitamente sostenuta dal Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano): però sarebbe altrettanto semplicistico porre la questione dell’indipendenza della banca centrale nazionale in termini di “Saccomanni tecnico versus Grilli politico”. Saccomanni non ha mai operato alle dipendenze dirette di Tremonti (o di un governo), ma è stato il numero due di Draghi, e ora, a Francoforte, dovrebbe essere uno dei 17 governatori del “Consiglio generale”, che dovrebbe sorvegliare l’operato del nuovo presidente Bce e dei suoi cinque colleghi nell’esecutivo.

Lorenzo Bini Smaghi – richiamato anticipatamente e non senza qualche polemica dall’Eurotower per far posto a Draghi – è cresciuto in Bankitalia ed è poi passato negli alti ranghi del Tesoro (Sace) prima di essere inviato a Francoforte: ora è lui stesso al centro di possibili voci di designazione “terza” in Bankitalia e anche contro di lui viene agitata l’accusa di “banchiere politico”. Ma un membro dell’esecutivo Bce (succeduto a Tommaso Padoa Schioppa) non è un candidato pressoché automatico a guidare una banca centrale nazionale dell’euro?

Christian Noyer è stato nominato presidente della Banca di Francia seguendo esattamente quel percorso, scambiandosi di ruolo con Jean Claude Trichet, designato al vertice Bce. Come Draghi – e Grilli – ha costruito il suo curriculum al Tesoro, non in Banca di Francia. E per approdare a Francoforte ha dovuto attendere quattro anni: per uscire indenne da un processo con pesanti imputazioni legate al crac Credit Lyonnais, il più grosso scandalo politico-bancario europeo precedente alle crisi della finanza globale. Lo stesso Trichet, nelle ultime settimane, ha vibratamente difeso l’indipendenza della Bce, ma non ha fatto una piega quando il governo Merkel ha sostituito (silurato) il membro tedesco dell’esecutivo, Jurgen Stark, per disallineamento sulle posizioni (politiche) di Berlino sul salvataggio greco.

Non da ultimo, in Italia – diversamente da Germania o Francia – la vigilanza creditizia è ancora di stretta competenza della Banca d’Italia. È una delle prerogative lasciate dalla riforma del 2005 che ha, tra l’altro, continuato a escludere almeno un passaggio parlamentare di ratifica delle nomina del Governatore. La procedura resta quindi un gioco a tre, fra il Quirinale, il Premier e il Tesoro: sei anni fa Tremonti, pago della caduta di Fazio, lasciò che Ciampi suggerisse il nome a Berlusconi. Stavolta no.

Come andrà a finire? Un pronostico secco? Saccomani governatore “di transizione” (ma era nelle premesse) e Grilli alla direzione generale come “governatore di domani”. E Bini Smaghi alla direzione generale del Tesoro. Un compromesso, certamente, ma non dei peggiori.