La Fiat si sgancia da Confindustria cinque anni dopo che Diego Della Valle fu costretto a lasciare il direttivo dell’associazione dopo il clamoroso scontro col premier Silvio Berlusconi a Vicenza. Allora, nella primavera del 2006, il leader degli industriali italiani era il presidente della Fiat, Luca di Montezemolo. Allora Berlusconi recuperò in poche settimane dieci punti di gap nei sondaggi delle imminenti elezioni politiche, ma le perse, infine per soli 24mila voti contro Romano Prodi.
Due anni dopo, tuttavia, il Cavaliere era di nuovo in sella con una maggioranza schiacciante; nuovamente raccolta anche tra i ceti produttivi del Paese. Nel frattempo Montezemolo aveva lasciato a Emma Marcegaglia la guida di una Confindustria apparentemente più nordista e governativa; e poi a John Elkann la presidenza di Fiat (managerialmente già consegnata a Sergio Marchionne), annunciando a più riprese un impegno in politica, senza mai sbilanciarsi sull’obiettivo strategico: succedere a Berlusconi o contrastarlo.
Negli ultimi quattro giorni: a) la Confindustria della Marcegaglia (ormai prossima alla fine del mandato, tra due sole settimane a Capri) ha promosso un manifesto di riforme economiche in critica aperta all’esecutivo; b) Della Valle ha pubblicato un eclatante appello “antipolitico” e ha poi annunciato un’inattesa uscita dal patto di sindacato Mediobanca; c) la Fiat ha formalizzato la sua fuoriuscita dal sistema confindustriale raccogliendo reazioni stizzite (il vicepresidente, Alberto Bombassei, ha addirittura lamentato l’assenteismo del suo collega Elkann nel direttivo di viale dell’Astronomia).
Il capitalismo italiano è chiaramente in movimento, sotto la pressione della crisi e mentre si approssimano scadenze importanti dal rinnovo della presidenza di Confindustria (il cui iter inizierà tra poche settimane) alle stesse consultazioni politiche, che potrebbero essere anticipate anche sulla scia del referendum sulle norme elettorali. Lo stesso scacchiere politico è in fase di ristrutturazione attorno all’autunno di un premier-capitalista-imprenditore come Berlusconi, mai desideroso di farsi accettare dall’establishment industriale e bancario nazionale; mai comunque del tutto accettato nelle stanze dei bottoni: fossero ancora vivi Gianni Agnelli e Enrico Cuccia; o fossero Montezemolo e Della Valle (oppure l’ex amministratore delegato di UniCredit, Alessandro Profumo) ad alimentare fronde e opposizioni dall’interno del mondo finanziario e imprenditoriale.
La svolta Fiat in Confindustria è storica e simbolica: non bisogna mai dimenticare che l’avvento di Mussolini (un socialista rivoluzionario portato su posizioni reazionarie) fu direttamente appoggiato dal Lingotto del Senatore Giovanni Agnelli, al centro di un fronte compatto di grandi industriali; o che lo zenit della “concertazione” tra Governo, Confindustria e Cgil-Cisl-Uil – dopo un trentennio di “economia mista” – fu toccato nel ’75, quando Gianni Agnelli personalmente firmò con Luciano Lama l’intesa sul punto unico di scala mobile.
L’anno dopo Umberto Agnelli si fece eleggere senatore per la Dc (il giovane Montezemolo fu il suo spin-doctor) nell’intento di promuovere – da imprenditore e grande capitalista privato – una svolta laico-moderata al maggiore partito italiano, per contrastare l’ondata di piena di Pci e Psi. Andò tutto all’incontrario: dalla solidarietà nazionale l’Italia uscì con la leadership di Bettino Craxi. Un politico di professione che con Confindustria duellò a lungo e che premette sul capitalismo imprenditoriale nazionale: il futuro premier Berlusconi è il principale prodotto di questa azione. Ma non va dimenticato l’importante “armistizio” con Mediobanca raggiunto con l’ingresso nel patto di Salvatore Ligresti.
A proposito: Della Valle ha sbattuto la porta in Piazzetta Cuccia perché non gli è stato assegnato un seggio in cda, pur dopo il deciso affondo in Generali – anche per conto del vertice Mediobanca – per rimuovere dalla presidenza Cesare Geronzi. Ma i top manager di Mediobanca – Renato Pagliaro e Alberto Nagel, eredi diretti di Cuccia e di Vincenzo Maranghi – non hanno potuto/voluto rimuovere dal consiglio Jonella Ligresti (figlia dell’ingegnere) e tanto meno Marina Berlusconi, nel frattempo entrata nel patto e nel board.
Quindi, né Confindustria, né Mediobanca sembrano assolvere più la funzione di stanze di compensazione ultime delle istanze e delle tensioni interne all’establishement privato. Elkann, ancora prima di Marchionne, sono stati inequivocabili: la famiglia Agnelli e la Fiat non si riconoscono né nel manifesto della Marcegaglia, né nell’appello di Della Valle. Dalla prima, probabilmente, il Lingotto si aspettava di più sul piano delle relazioni sindacali sul caso Pomigliano e oltre. L’accordo del 28 giugno, invece, resta all’interno di un quadro “concertatorio” in fondo superato dalla lettera Bce (siglata anche da Mario Draghi) sulla necessità di rendere più flessibile il mercato del lavoro.
La Marcegaglia, invece, in luglio, ha tentato la creazione di un “tavolo unico delle parti sociali”, elogiato dal Quirinale, ma esteso perfino alla neo-leader della Cgil, Susanna Camusso. Ora questo tavolo si è ristretto alle organizzazioni imprenditoriali (compresa la tradizionale controparte creditizia Abi), ma non ha allontanato dalla leader uscente i sospetti di una “corsa politica in proprio”: probabilmente con una formazione centrista che taluni identificano nell’Udc di Pier Ferdinando Casini (genero di Francesco Gaetano Caltagirone). Ma è lo stesso piedistallo di voti da cui vorrebbe presumibilmente partire Montezemolo per aggregare un “terzo polo” forse a Fini o Rutelli.
Ma è coerente con questo disegno l’ennesimo “scarto” antipolitico di Della Valle? E quanto pesa lo “strappo Fiat” su questa stretegia in incubazione? È d’altronde noto come l’Udc non sia affatto disattento al progetto politico apertamente delineato del segretario del Pdl Angelino Alfano: far evolvere il partito verso posizioni di “sezione italiana del Ppe”. Con una governance diversa da quella del Pdl berlusconiano (che in fondo Montezemolo e Della Valle vorrebbero clonare) e con piattaforma di respiro socio-economico assai più ampio di quello di un semplice “partito dei produttori”.
È vero che l’arretramento della Lega Nord dall’iniziale rappresentanza politica dell’impresa minore – non tutelata da Confindustria e sempre premuta dal frontismo sindacale – offre spazi di manovra, sia sul versane politico che su quello associativo. L’uscita di scena della Fiat, per paradosso, offre al successore della Marcegaglia opportunità inattese di riforma strutturale e strategica: se verranno colte anche i sindacati dovranno accelerare sulla via del cambiamento.
Nel frattempo Berlusconi – in fase di riaggiustamento di rapporti con il suo super-ministro dell’Economia Giulio Tremonti – ha ancora in mano il pallino di un rilancio riformista: alla fine di ottobre (quando Mediobanca terrà la sua assemblea annuale, tradizionalmente nel giorno dell’anniversario della Marcia su Roma) molti dubbi saranno sciolti.