Super-manovra fiscale? Grandi riforme economiche? Privatizzazioni? L’agenda minima del governo Monti, probabilmente, verrà in parte realizzata con la sua stessa nascita. I mercati – ormai padroni del rating Usa come di quello francese, del destino dell’Italia come di quello della Grecia – volevano la testa di Silvio Berlusconi per allentare la pressione sullo spread e quindi sulla sostenibilità del debito pubblico italiano. Sarà interessante vedere fin da stamattina quanto vale veramente – nell’immediato – l’effetto-Cavaliere: l’ormai ex ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, si dice lo quantificasse in almeno 150 dei 500 punti di picco del differenziale Btp-Bund. Ci sarà tempo per dibattere sullo stato della democrazia globale al tempo della finanza globale incattivita dalla crisi (su queste colonne ci stiamo comunque riflettendo da tempo). Nel frattempo non si può non rendere merito al realismo politico di Giorgio Napolitano, unico finora a essersi dimostrato all’altezza del nome di statista.



Il Capo dello Stato è riuscito a portare a termine – senza forzare i limiti della Costituzione – un blitz istituzionale che tuttavia assomiglia non poco a quello del 25 luglio 1943. Anche allora – di fronte a una tragica emergenza nazionale – re Vittorio Emanuele III optò direttamente per un governo “tecnico” (solo militare) invece di tentare una transizione post-fascista: associando generali, gerarchi meno compromessi dal regime, vecchi politici liberali ed esponenti delle nuove forze antifasciste. La situazione era però troppo disperata: non a caso anche il “tecnico” Badoglio fallì e l’8 settembre travolse la stessa monarchia, diventando da allora, più ancora di Caporetto sinonimo di resa incondizionata e disonorevole.



Difficile prevedere oggi quali saranno le condizioni e le conseguenze economiche dell’armistizio che l’Italia sta tentando con i mercati e con l’Europa con “l’amministrazione Napolitano-Monti” (perché la leadership e la garanzia politica del Quirinale, per quanto controverse, hanno una forza evidente decisiva). L’agenda del governo – o meglio ciò effettivamente che accadrà – dipenderà da dinamiche politico-economiche che non riguarderanno solo l’Italia: basti pensare che nel 2012 i presidenti di Francia a Stati Uniti affronteranno l’esame delle urne e soprattutto in America Obama è sotto accusa per non aver tenuto a bada Wall Street e i banchieri.



Di certo l’Italia è finita sul banco degli accusati del mercato e dei partner dell’euro per il debito pubblico a “quota 120%”: l’avvio dell’abbattimento è l’unico impegno certo che attende, da subito, Monti con i suoi “tecnici”, anche per poter eventualmente accedere alle reti di sicurezza già attive (Fmi) o in cantiere (Efsf). Si tratta comunque di un passaggio che l’Italia ha già affrontato nell’autunno 1992 e su ilsussidiario.net ne abbiamo già scritto: la pressione dei mercati spinse lo “spread” fino a quasi 750 punti base, ma si scarico sulla lira, allora ancora viva ma vincolata allo Sme. L’Italia stava entrando nella fase più dura e acuta di Tangentopoli, dalle elezioni Dc e Psi erano usciti ridimensionati e Giuliano Amato pilotava un governo di semi-emergenza. La Banca d’Italia di Carlo Azeglio Ciampi bruciò migliaia di miliardi di riserve valutarie, prima che fosse negoziata una svalutazione (allora possibile). Poi il governo varò una manovra pesantissima (90.000 miliardi di lire, poco meno 50 miliardi di euro) comprendente il famigerato prelievo straordinario del sei per mille sui depositi bancari.

È singolare ricordare che Mario Monti, su Il Corriere della Sera, non era favorevole alla difesa a oltranza della lira, sostenendo invece l’opportunità di una politica economico-valutaria più elastica attraverso un prestito in valuta sui mercati internazionali: ciò anche con l’eventuale messa a disposizione di parte delle riserve auree della Banca d’Italia (era già stato fatto a metà degli anni ‘70). In termini politici, l’attuale premier incaricato era già orientato allora al “primato dei mercati”, ancorché la globalizzazione finanziaria fosse ancora agli inizi. Carlo Azeglio Ciampi, allora governatore della Banca d’Italia, interpretò invece stoicamente il ruolo di difensore istituzionale della “sovranità del conio”, in attesa che il governo Amato varasse la correzione fiscale. Una manovra che Monti, sul Corriere, salutò comunque come “coraggiosa e convincente”. Ed è interessante rileggere velocemente come per l’economista non fossero affatto negative “le reazioni critiche delle parti sociali” alla stangata.

“Nei prossimi giorni e settimane – scriveva nel settembre ‘92 – proprio le reazioni critiche offriranno al governo l’occasione per dimostrare la sua determinazione e per affermare in Italia un metodo di governo dell’economia indispensabile oggi e ancor più nei prossimi anni. Un metodo di governo non certo basato sullo scontro, ma sulla chiara distinzione di compiti tra pubblici poteri e parti sociali, basato sull’ ipotesi – fino a prova contraria – che Governo e Parlamento abbiano titolo ad esprimere l’interesse generale più delle parti sociali, per quanto responsabili e illuminate”. Il Presidente del Consiglio, suggeriva Monti, non doveva più “prestarsi a defatiganti e fumosi confronti con le categorie, per dedicarsi a due compiti più importanti: uno strettamente operativo, l’altro pedagogico”. Il primo sarebbe stato “varare i decreti delegati – che daranno corpo e attuazione alla legge delega su pensioni, sanità, pubblico impiego e finanza locale”. Il compito pedagogico era invece individuato nello “spiegare al Paese, nei termini più semplici, le concrete e pesanti conseguenze che nei prossimi anni gli italiani patirebbero nella loro vita quotidiana non per effetto di un risanamento finanziario del resto appena iniziato, ma nel caso che il risanamento non avesse luogo”.

Cosa successe dopo? Il governo politico Amato fu spazzato via assieme a tutta la Prima Repubblica da un mix di forze che assomiglia a quello che ha “rimosso” Berlusconi (magistratura ed establishement internazionale). A Palazzo Chigi arrivò uno super-tecnico (Ciampi), il quale passò agli annali essenzialmente per due ragioni: a) aver attivamente promosso la “concertazione” triangolare (Governo-imprenditori-sindacati) per favorire la ristrutturazione industriale e una maggior flessibilità del costo del lavoro; b) aver avviato a ritmo serrato le privatizzazioni, cominciando dallo strategico settore bancario-assicurativo (Comit, Credit, Imi e Ina) e dando corpo ai colloqui del Britannia fra l’allora direttore generale del Tesoro Mario Draghi e gli investitori internazionali guidati dalla Goldman Sachs.

Le pensioni non furono però toccate prima che al governo arrivasse Lamberto Dini: tecnico anomalo che era stato ministro del Tesoro del primo Governo Berlusconi. Dopo, cioè, che il terremoto epocale sulla scena politica aveva lasciato spazio alla novità-Berlusconi e a un nuovo blocco politico-sociale che si annunciava moderato e liberale. Fu questo blocco che – facendo sponda sulla novità-D’Amato in Confindustria – a cavallo del 2000 premette sul Berlusconi-2 per abolire l’articolo 18 e introdurre la “libertà di licenziare”: chi lo impedì fu però il “blocco della concertazione” di cui Monti era uno dei paladini politico-culturali. D’altronde – come abbiamo più volte segnalato in questa rubrica – la sollecitazione della Bce al governo italiano a modificare le regole del mercato del lavoro sono state subito recepite e infatti compaiono nel “decreto stabilità” che è stato l’ultimo atto del Berlusconi-3.

La manovra fiscale, nell’agenda del governo Monti, appare quindi scritta con inchiostro indelebile: restano solo da riempire le caselle con le cifre e con la modulazione degli interventi. Come ha notato Angelo Panebianco su Il Corriere della Sera, forse Monti avrà le mani più legate di quanto le ebbe il politico Amato, che aveva comunque alle spalle una maggioranza politica. Non sarà davvero facile trovare forme di tassazione socialmente “neutre”. Il resto dell’agenda politico-economica – le riforme e il cambiamento dell’Azienda-Paese – sembra invece meno praticabile: a meno che il Monti del 2011 non intenda svolgere quel ruolo “pedagogico” che assegnava ad Amato e Ciampi nel ‘92.

Il “governo dei professori” potrebbe cioè funzionare da “centro studi” d’eccezione per studiare e spiegare a quali valori economici compatibili e sostenibili gli italiani potranno trovare un lavoro e andare in pensione, pagare le tasse per ottenere quali servizi pubblici, ecc. Ma solo un governo politico – dopo un passaggio elettorale – potrà declinare in norme e in prassi il “nuovo modo” di gestire l’Azienda Paese. Nel frattempo, un governo Monti in carica si misurerà prevedibilmente con situazioni specifiche più o meno spinose: il “progress” del caso Fiat, il riassetto del sistema bancario, l’avvio della liberalizzazioni del trasporto ferroviario.

Ecco: come il governo Monti affronterà l’ingresso sui binari degli “Itali” di Luca di Montezemolo, Diego Della Valle e del loro partner francese contro il servizio pubblico Fs sarà un momento interessante – tra tanti – per vedere all’opera il rettore della Bocconi, dopo aver visto all’opera il suo maestro Ciampi e il suo amico fraterno Draghi.