Uno dei paradossi più gravi della crisi italiana è che il Paese ritenuto più a rischio del mondo dopo la Grecia è ampiamente solvente. Lasciando perdere i rating, basta guardare – tra tanti indicatori – alla ricchezza finanziaria privata delle famiglie, ancorché concentrata nell’immobiliare. I più di 8.000 miliardi di euro stimati sono il quadruplo del debito pubblico, che pure resta collocato alla famigerata “quota 120” sul Pil. Un secondo paradosso – strettamente collegato al primo – è che un Paese a storica capacità di risparmio ha confermato la forza della sua civiltà finanziaria anche nella tenuta del suo sistema bancario: eppure sono stati ancora una volta i titoli creditizi – ossatura dell’indice Ftse-Mib – a zavorrare ieri Piazza Affari fino al -6,8% di chiusura (la peggiore dopo il fallimento di Lehman Brothers).
Nessuna grande banca italiana è fallita dopo il collasso di Wall Street e della City, gli aiuti pubblici sono stati pressoché simbolici e tutti i grandi gruppi hanno ricapitalizzato. I loro bilanci sono (ovviamente) più carichi di titoli di Stato italiani, ma molto più leggeri sia di titoli greci che di strumenti strutturati “tossici” rispetto alle banche tedesche o francesi, sia in cifre assolute che in rapporto alle basi patrimoniali di vigilanza. Eppure l’Eba (la nuova authority europea di supervisione bancaria presieduta dall’italiano Andrea Enria) ha tratto conseguenze severe dall’ultimo accordo Ue sul risanamento bancario: ai gruppi italiani è stato intimato velocemente un nuovo rafforzamento patrimoniale (per portare al 9% il livello Tier 1 di capitale di rischio), in assoluto il più consistente in Europa. Anche in questo caso con motivazioni e con esiti paradossali.
Paradossale è che le regole contabili (Ias e Basilea 3) impongano di mettere in bilancio “tutte e subito” le svalutazioni di Bot e Btp – come se il rischio-Italia fosse quello espresso dalla speculazione – e praticamente ignora che i titoli “illiquidi” nei portafogli della Duetsche Bank valgono zero. Paradossale è che una Bcc italiana per far credito a una Pmi dietro l’angolo, conosciuta da decenni, debba seguire regole più stringenti di quelle imposta alla Goldman Sachs se compra un miliardo di obbligazioni derivate. Paradossale, infine, è che l’unica banca italiana giudicata a posto dall’Eba sul piano degli equilibri patrimoniali (Intesa Sanpaolo) sia stata la più punita dai mercati ieri: dopo essere stata tra le più premiate pochi giorni fa.
Ha pesato la dura presa di posizione (a nome di tutti) da parte del presidente di Intesa, Giovanni Bazoli? Lui e il leader delle fondazioni bancarie – Giuseppe Guzzetti – hanno prospettato il paradosso finale, potenzialmente tragico: che le banche italiane diventino facile preda di scalate estere, strette fra controversi allarmi delle authority e speculazione spietata (e non finiremo mai di ricordare che la speculazione contro il rischio-Italia è alimentata anche da risparmi italiani).
Che fare? Può sembrare banale, ma anche la “questione bancaria” (costitutiva della sovranità di un Paese come e più della solvibilità pubblica) non può che essere affrontata in termini di credibilità politica: a) per diminuire la pressione sui titoli di Stato; b) per aumentare la capacità negoziale di un Paese-fondatore della Ue al tavolo delle regole bancarie; c) per imporre – se necessario – divieti legali alla scalabilità delle banche. Su questo versante, il governo Berlusconi ha mostrato una debolezza controversa ben prima che diventasse conclamata: quando acconsentì – con qualche mal di pancia – all’ingresso di capitali libici in UniCredit. (A proposito: il primo vero test della “nuova” Banca d’Italia di Ignazio Visco è già iniziato; che non sia tempo di professorini ormai vetero-liberisti lo ha segnalato la clamorosa bocciatura di Francesco Giavazzi all’ultima assemblea Mediobanca. Gli è stato preferito Fabio Roversi Monaco, giurista, in rappresentanza della Fondazione Cassa Bologna).