“Easy money” la chiamano sui mercati: “moneta facile”, moneta abbondante, che agevola per definizione il lavoro di chi commercia moneta. Non è un caso che i mercati abbiano tributato a Mario Draghi un’ovazione unanime e istantanea: quasi una raffica di ordini di Borsa “ad alta frequenza” tutti orientati dallo stesso algoritmo nelle medesima direzione. Un applauso tanto veloce quanto repentina è stata l’effettiva presa di potere del nuovo presidente della Bce. All’ex Governatore della Banca d’Italia sono occorse appena 60 ore per impugnare la leva principale del banchiere centrale e abbassare i tassi sull’euro. Una mossa pesante, addirittura più nella forma che nella sostanza.
Tagliare i tassi poco prima dell’inizio dei lavori del G20 e con i leader europei affannati attorno all’ennesimo tormentone greco, è un segnale inequivocabile, certamente sul piano mediatico. La banca centrale (anzi: “la Bce di Draghi”) passa all’azione mentre i “politici” chiacchierano, litigano, rinviano etc. Ancora: i 17 “cavalieri della tavola rotonda“ di Francoforte decidono all’unanimità, mentre neppure i due “lord” dell’euro e della Ue (la tedesca Merkel e il francese Sarkozy) si ritrovano d’accordo sulle misure da prendere per uscire dalla crisi, figurarsi gli altri 25 partner.
Potrà non piacere (a chi qui scrive per esempio non piace fino in fondo) ma tant’è: in questa fase cruciale di accelerato chiarimento politico-economico, i tecnocrati della Ue-17 hanno voluto – legittimamente – marcare il loro territorio entro i confini più ampi consentiti loro dalle regole e dai vuoti lasciati dai governi nel teatro delle operazioni. Anche i banchieri della Lehman Brothers – e molti loro cugini – avevano via via allargato il raggio d’azione del loro business mano a mano che i poteri pubblici si ritiravano: prima nel nome ideologico della “deregolazione”, poi sotto la pressione egemone di banche stesse, divenute “troppo grandi” (per fallire, ma anzitutto per essere controllate e contrastate nella loro “esuberanza irrazionale”).
La piena autonomia della finanza globale di mercato a beneficio dell’economia tutta era e rimane del resto il Grande Teorema: drammaticamente e definitivamente non dimostrato secondo alcuni; in attesa di compiuta dimostrazione secondo altri, a patto che vengano ben definite e strettamente rispettate tutte le ipotesi. Tra queste ipotesi l’indipendenza delle banche centrali dalla politica resta un “dogma”. Un assioma che Draghi ha voluto ribadire ieri con la massima forza, rimanendo apparentemente in linea con le ultime posizioni del predecessore Jean Claude Trichet. Ma senza fugare l’impressione di un forte “arrocco tecnocratico” della Bce, anzi: anche nel merito, il taglio dei tassi pone interrogativi sulle strategie “indipendenti” della Bce.
Trichet ha sempre difeso l’autonomia della banca centrale, lamentando che all’Eurotower fossero attribuiti compiti di supplenza impropri. In dettaglio: l’obiettivo e la responsabilità istituzionali della Bce sono la difesa del valore dell’euro (addirittura entro un parametro numerico tendenziale: il 2% di inflazione all’anno) e non altro (vigilanza bancaria, salute fiscale dell’Eurozona, politiche economiche di stimolo, etc). Pochi mesi fa il candidato tedesco al vertice Bce (il presidente della Bundesbank, Axel Weber) si chiamò clamorosamente fuori dalla corsa, lasciando intendere che le sue note posizioni rigoriste “non erano gradite a qualcuno”. Sicuramente non erano gradite alla stampa anglosassone, portavoce degli interessi di Wall Street e della City e tifosa dichiarata di Draghi, ex top manager della Goldman Sachs. E certamente l’approccio della Goldman e delle sue sorelle sopravvissute al collasso del 2007-2008 è ben sintetizzato nella sigla “QE”: quell’espansione monetaria – a più riprese e in forme diverse – che i mercati hanno preteso e ottenuto dalla Federal Reserve di Ben Bernanke, con il placet sempre meno riluttante del presidente Obama.
I dubbi sull’efficacia dello “stimolo monetario” sono stati più volte registrati anche in queste note. Voci autorevoli hanno segnalato i rischi di equivoco nel mescolare la stagionatissima ricetta keynesiana nella lotta alla recessione con l’esigenza di tenere un sistema bancario malato grave in un bagno di liquidità. La speranza-obiettivo degli “stimolisti” continua a chiamarsi: ripresa e aumento del Pil e risanamento veloce del sistema finanziario. Il rovescio evidenziato dai critici è: inflazione nelle economie e turbolenze speculative in Borsa. E’ un fatto che – G20 dopo G20 – l’Europa tedesco-centrica aveva sempre difeso il suo rigorismo: l’uscita dalla crisi non poteva essere cercata nel doping del “denaro facile” (dalla Fed e/o dal bilancio federale), ma in una ricostruzione faticosa (dolorosa) della produttività delle imprese, della solidità delle banche, degli equilibri di bilanci statali da coordinare con più forza nell’Eurozona. La severità nei confronti della Grecia – e della stessa Italia – sono state coerenti con questa visione, giusta o sbagliata. Lo è anche il “blitz” di Draghi? Difficile sostenerlo.
Un taglio “non annunciato” dei tassi assomiglia molto agli stimoli di Obama e Bernanke, puntualmente applauditi da Wall Street come lo è stato il taglio di ieri. Di più: il “denaro facile” annunciato in Europa è servito soprattutto a calmare un po’ i nervi degli operatori di Borsa americani dopo il crack del broker MF Global. Un default ostentatamente attribuito a un’alta esposizione in titoli di Stato di paesi deboli dell’euro. Come dire: a Wall Street si fallisce “per colpa” dell’Europa, è l’Europa che deve riparare i danni. E se l’Europa dei governi latita, è la Bce che deve “supplire”: il giudizio dei mercati è insindacabile e poco importa che quei mercati giochino ogni giorno assorbendo il “denaro facile” messo a disposizione dai banchieri centrali con la motivazione ufficiale che bisogna aiutare la ripresa e tutelare le banche.
Guido Rossi – sul Corriere della Sera – ha mostrato un insospettato pessimismo verso l’avvento di Draghi: ex banchiere di quella Goldman che ha falsificato dieci anni fa i conti della Grecia con un derivato; ed esponente – a dire del giurista italiano – di una “cultura ormai vecchia”. E’ presto per giudicare la Bce di Draghi e siamo tutti obbligati a sperare che abbia ragione lui. Ma di certo il banchiere italiano non ha perso tempo per aizzare i suoi critici.