Quando questa noticina sarà in rete, i mercati avranno già espresso il primo giudizio effettivo sull’euro-manovra approvata all’alba di tre giorni fa. Prevedibilmente resteranno di umore grigio tendente allo scuro, come già venerdì mattina. I mercati – “luogo della merce” – volevano merce, non politica. Volevano Eurobond su cui cominciare a speculare. Volevano una Bce finalmente affrancata dal ruolo istituzionale di banca centrale e trasformata essa stessa in operatore stabile di mercato: “prestatore di ultima istanza”, acquirente stabile di titoli sovrani sotto attacco (più o meno il “banco” di un casinò, controparte certa di chi gioca e vince). Tutto questo nel lungo comunicato emesso dei capi di Stato e di governo dell’Unione europea al termine del super-vertice di Bruxelles non c’è.
C’è invece una forte riaffermazione politica su cui non tutti scommettevano: l’euro – la moneta che è stata finora il collante dell’Europa – non è una “merce” privatizzata presso mercati e banche per i loro business speculativi. È invece un bene pubblico, il cui valore va salvaguardato dall’Unione, dai governi nazionali dei paesi membri e – non da ultimo – da una banca centrale indipendente ai fini della politica monetaria, ma pur sempre controllata dai paesi-membri dell’Eurozona e non indiscriminatamente “catturabile” dai mercati.
Giusto o sbagliato (e una risposta oggi non può esserci), il cancelliere tedesco Angela Merkel – più ancora che il presidente francese Nicolas Sarkozy – è riuscita a imporre, una volta di più (forse non definitiva, ma politicamente di massimo impegno) questo ruvido schema politico-economico: l’euro riflette la competitività e l’autodisciplina finanziaria dell’Unione, il “merito” dei suoi membri. L’euro non si salva stando al gioco dei mercati: il fondo salva-Stati può funzionare nell’emergenza, ma sono i conti in ordine (quelli del Pil e quella della finanza pubblica) che tengono a bada tutti i mercati e tutte le loro agenzie di rating (gli esami si superano se si “fanno i compiti a casa”, non facendosi passare i compiti in classe a pagamento dal compagno di banco e tanto meno scendendo a patti sottobanco con i professori: al limite si denunciano e si contrastano i professori ignoranti e corrotti).
Gli Eurobond? È chiaro che, senza una nuova governance economica europea, la Germania li considera (non del tutto a torto) altra “finanza derivata”: così come le investment bank hanno “cartolarizzato” i mutui subprime, si vorrebbe impacchettare e rivendere i debiti sovrani dei paesi meno virtuosi con l’etichetta “euro”: ambigua come le sigle dei “veicoli” con la cui la Goldman Sachs e le sue sorelle ricollocavano “credit derivative obligations”. Non è paradossale che le stesse agenzie di rating abbiano cominciato a fare le pulci in anticipo agli Eurobond, presentandoli (non scorrettamente) come “bond greci travestiti”?
Era prevedibile che la Gran Bretagna alla fine si sarebbe alzata dal tavolo. Non ha avuto peli sulla lingua Sergio Romano, diplomatico e storico, su Il Corriere della Sera: Londra è entrata nell’Unione europea (e comunque non nell’euro) solo per esercitare una vigilanza e un condizionamento “insider” per conto dell’alleato speciale di sempre (gli Stati Uniti). Nel concreto, non ha potuto dir di sì all’euro “eurocentrico”, una vera V2 puntata contro la City di Londra, il luogo al mondo dove le monete sono solo “merci” da scambiare (più ancora che a Wall Street, dove sul dollaro resta sempre scritto “in God we trust”). Di più, il direttorio franco-tedesco dell’Europa – nel suo sforzo di difendere l’euro in via politico-strutturale e non tecnico-strumentale – insiste per una severa “ri-regolamentazione” dei mercati: la Tobin tax – la tassa sulle transazioni finanziarie – è il simbolo della volontà europea di ridimensionare lo strapotere dei mercati sugli equilibri economico-sociali dei cittadini europei e delle loro istituzioni.
Meno scontata era l’adesione degli altri 25 paesi dell’Unione, nel giorno in cui – non casualmente – è stata dato via libera a un nuovo ingresso: la Croazia. Tutti i paesi “al di qua della Manica” – compresi quelli fuori dall’eurozona – non hanno dunque avuto esitazioni nel dire di sì al duo “Merkozy”. Come per tutti gli eventi addensatisi nelle ultime giornate è difficile darne una valutazione ponderata. Nel 1938 a Monaco l’Europa (Gran Bretagna in testa) disse sì alle pretese della Germania di Hitler e fu l’anticamera di un disastro storico. Stavolta è stata la Gran Bretagna a dire di no e la Germania, da parte sua, non cessa mai di avvertire tutti che fu la distruzione del marco (e poi un crack di Wall Street) a spianare la strada al nazismo. E poi allora la cortina di ferro fra la Russia sovietica e l’Europa libera era già in costruzione, mentre oggi lo spettro che spaventa i cittadini europei non è più la rivoluzione bolscevica, ma lo “spread” dei titoli sovrani, continuamente agitato dalla finanza apolide.
L’Italia – membro fondatore dell’Europa unita – è stato l’unico Paese a rispondere anche con i fatti: con la dura manovra di austerity varata dal governo guidato dall’eurotecnocrate Mario Monti. Si è già notato pochi giorni fa su queste pagine quanto la trasfusione di sangue italiano per la sopravvivenza dell’euro sia stata fatta anche per conto di altri paesi. E si è anche sottolineato anche qui – facendo eco, ad esempio, alle proteste delle banche italiane sulle regole contabili e sui fabbisogni di nuovi capitali stimati dall’authority europea Eba – quanto il confronto interno all’Ue odierna veda il peso dell’Italia a un minimo storico e ai limiti sulla sudditanza. È una situazione seria che merita attenta valutazione: d’altronde la scommessa – parecchio “naif” – di Silvio Berlusconi di una diplomazia personale sul terreno economico (con la Libia di Gheddafi non meno che con la Russia di Putin) è stata drammaticamente perduta.
La questione centrale – per l’Italia non meno che per l’Europa, per la Merkel non meno che per Monti – resta tuttavia “if new euro will work”, se il new deal europeo “funzionerà”. E qui il nome del gioco rimane uno solo: crescita. In tutte le righe che precedono abbiamo già analizzato l’approccio Merkel: non è con l’inflazione stimolata “all’americana” che l’Europa si risolleva, l’eurozona non può permettersi proprio ora una pesante svalutazione competitiva dell’euro. Il taglio graduale dei tassi può dare un po’ di respiro, ma niente “rompete le righe”. L’emergenza può consentire interventi della Bce su Btp e altri titoli sovrani deboli, ma “non illimitatamente e non eternamente” ha dovuto confermare lo stesso Mario Draghi. Gli Stati dovranno curarsi anzitutto da sé.
La Banca centrale, questo sì, sosterrà invece quasi illimitatamente le banche dell’Eurozona col credito perché facciano credito alle imprese: ma anche in questo caso le banche dovranno aiutarsi da sole ricapitalizzandosi (ed è una nuova sfida ai mercati stessi: preferiscono che in Eurolandia resti una struttura finanziaria privata di mercato o vogliono la rinazionalizzazione forzata del sistema?). Con tutto questo non siamo ancora a una sola frazione aggiuntiva di Pil prodotta. Per questo ci vogliono – lo ricorda il documento di Cl sulla crisi citando don Giussani – “le forze che muovono la storia e il cuore dell’uomo”. Nella fattispecie: lavoro, scuola e risparmio, impresa, politica e sussidiarietà.
PS: Su Il Corriere della Sera di ieri, Francesco Giavazzi e Alberto Alesina vengono finalmente al dunque della loro stupita delusione per la manovra varata dal loro maestro Mario Monti. Bisogna “aprire il dossier privatizzazioni”. Nomi e cognomi: Enel-Eni-Finmeccanica con l’aggiunta – rispetto a vent’anni fa – delle “mille municipalizzate, A2A, Iren, Acea, Hera”. Però tutto è semi-nascosto in un paragrafo nel giro interno dell’editoriale: evidentemente i due si vergognano parecchio di dover rimettere i panni dei banditori d’asta per cose non loro, che tuttavia le banche d’affari della City vorrebbero vendere volentieri a qualche fondo, approfittando dei prezzi bassissimi in Borsa. “Se l’argomento è che sono aziende strategiche, in questo momento non ce possiamo permettere”, tagliano corto.
Premesso che l’argomento è che sono “aziende strategiche” (lo fosse ancora la Fiat, che è sparita come grande industria, ma si guarda bene dal recedere come grande azionista de Il Corriere della Sera), almeno si mobilitasse un po’ il capitalismo nazionale, se ha ancora un po’ di capitali e soprattutto di spirito imprenditoriale: ad esempio, quella famiglia Agnelli cui tanto lo Stato ha dato (anche ultimamente) e cui a suo tempo furono consegnate due “aziende strategiche” come Telecom ed Edison. Una rischia dopo un decennio di finire a Telefonica (“azienda strategica” spagnola), l’altra sta finendo a Edf (“azienda strategica” francese).