La “fase due” del Governo Monti è già in catena di montaggio. Non può essere diversamente. Silvio Berlusconi – ma anche Pierluigi Bersani alla Camera – hanno avvertito i ministri tecnici che la politica può rispettarli e sostenerli, ma non fino al punto di abdicare definitivamente. Approvata la manovra, anzi, le forze politiche danno in fondo segni di salute provando a recuperare spazi e primato: fino al punto di ventilare già ora un appuntamento elettorale già nella primavera 2012. Logico che il Premier, il superministro Corrado Passera e gli altri membri dell’“esecutivo Napolitano” rispondano alla sfida con lo sforzo e il desiderio di “fare politica”, ponendo quindi la propria capacità di “government” come strutturalmente innovativa rispetto a quella di partiti visti come definitivamente obsoleti nella gestione della cosa pubblica. E quello italiano si presenta sempre più come un caso rilevante nel confronto – tutt’altro che teorico – sulla ristrutturazione istituzionale del potere in Occidente a favore delle tecnocrazie sovrannazionali, legate alle infrastrutture finanziarie sopravvissute alla grande crisi. 

Esemplare, in ogni caso, l’intervista concessa dal ministro del welfare, Elsa Fornero, a Il Corriere della Sera. Tenendo fermo il punto sulla riforma delle pensioni – ancora da “sigillare” – il ministro prospetta già la riforma del mercato del lavoro, con uno schema abbastanza semplice. Primo: la riduzione delle retribuzioni ai lavoratori “over 50”, oggi “iperprotetti al 100%” sia nella tutela del posto di lavoro, sia nel livello di salari e stipendi a fronte di una produttività strutturalmente in calo per le generazioni più anziane. Secondo punto: la cancellazione del precariato giovanile con l’introduzione di un contratto unico d’ingresso, a condizioni economiche molto “basiche”.

In sintesi: un’Azienda-Paese colpita e impoverita dalla crisi distribuisce meno reddito sia ai lavoratori giovani che a quelli più vecchi. Ai primi garantisce (finalmente) un lavoro e uno stipendio “veri”; ai secondi di poter arrivare alla pensione, anche dopo l’innalzamento dell’età di riposo. In termini aggregati, la quota di valore redistribuita all’interno della Famiglia-Paese dovrebbe tenere (anche se forse non per intero), mentre un miglior impiego dei giovani dovrebbe fare da volano all’Impresa-Paese (tendenzialmente più produttiva) e alla Società-Paese (più sana, meno precaria e più dinamica).

Il “patto” è una proposta tecnica che non manca di profili di appetibilità politica: al sindacato promette di tutelare sia i giovani che i vecchi, con sacrifici apparentemente equi o in ogni caso da studiare con attenzione. Alle imprese prospetta di non affrontare direttamente il tema della “libertà di licenziare”. Può sembrare un paradosso, ma sono proprio molte organizzazioni imprenditoriali a temere un doppio urto: politico-sindacale ed economico-finanziario, laddove i nuovi ammortizzatori sociali (la “flexicurity” delineata dal cosiddetto “progetto Ichino”) al momento dovrebbero essere finanziati dalle imprese stesse.

I termini simbolici, il superamento della cosiddetta “legge Biagi” rappresenterebbe per molti settori della politica, del sindacato e della cultura economica la fine di una parentesi liberista sul mercato del lavoro ritenuta devastante non meno della finanza globale. Se in ogni caso il governo Monti e il ministro Fornero riusciranno a varare un pacchetto di formule e strumenti, è chiaro che si aggiudicherebbero la partita principale: avrebbero perfezionato un passo di grande politica, certificando la fine della Seconda Repubblica e ribadendo la fine della Prima (perché non lo ha fatto Berlusconi? Giuliano Ferrara non cessa di lamentarsene e neppure lui si accontenta della giustificazione: “Ha avuto contro i magistrati e i banchieri internazionali”).

L’Italia, premuta dai mercati finanziari globali, rientrerebbe in ogni caso in una dimensione economica parzialmente regolata e consociativa: quella che la Germania continua a difendere come “economia sociale di mercato”, in una fase in cui peraltro le ricette ultra-liberiste all’americana sono in crisi. È questo del resto lo sfondo sul quale il super-ministro Passera sta preparando i suoi dossier sotto l’etichetta complessiva “Sviluppo”. E qui i primi passi si stanno subito dimostrando problematici: le liberalizzazioni stentano a ripartire e nessuno dimentica che il governo Prodi-2 resta nella memoria collettiva per l’abbattimento della commissione di ricarica dei cellulari (5 euro). Per la verità Prodi-Bersani-Padoa Schioppa bloccarono anche le vendite delle Autostrade alla spagnola Abertis e di Tim al gruppo Murdoch. Come si comporteranno Monti-Passera sulla sistemazione della vecchie privatizzazioni e sull’eventuale gestione delle nuove?

Le carte sono ancora coperte, ma un prodromo interessante si è avuto con l‘accoglimento da parte del governo di un ordine del giorno di Lega e Idv sull’azzeramento della vecchia procedura di assegnazione delle frequenze tv del digitale terrestre. Su queste pagine avevamo già segnalato il duro pressing del gruppo De Benedetti: non l’unico interessato a sfruttare la finestra del governo tecnico per superare l’oligopolio tv Rai-Mediaset-Sky. Dunque una battaglia di pura competizione capitalistica, anche se travestita da ripristino della democrazia informatica nel Paese.

Non sorprende neppure che il primo tavolo di confronto sostanziale sui confini tra pubblico e privato in economia venga aperto da due forze politiche poco amiche della libertà d’impresa, anche se per ragioni diverse. Fa pensare che lo stesso tavolo venga aperto più per strumentalità politica – aggredire gli interessi aziendali di Berlusconi subito all’indomani – piuttosto che con logiche di “politica industriale”. E in fondo non stupisce neppure la tecnica politica di Monti che lascia spazio a un ordine del giorno di due partiti sulle tv nella discussione parlamentare sulla manovra.

Il punto sarà vedere ora come Passera (ex manager ed ex banchiere) riuscirà ora a far quadrare il dossier: nessuno dimentica che il gruppo De Benedetti s’inventò una nuova vita per l’Olivetti vincendo l’asta per l’assegnazione della prima frequenza privata per la telefonia mobile (Omnitel, poi venduta a Vodafone). Oggi De Benedetti morde il freno sulle tv perché ha in tasca la liquidità “vinta” per una discussa sentenza giudiziaria di risarcimento danni, quasi un ventennio dopo la “battaglia di Segrate” per il controllo di Mondadori (e allora Passera era il primo manager della Cir). Per non parlare dello spinoso dossier ferroviario: con la Ntv di Diego Della Valle e Luca di Montezemolo pronta – in joint venture con un gruppo francese – a godere della “liberalizzazione” delle tratte ad alta velocità.

Nessuno dubita che il governo “tecnico” saprà impostare nei giusti termini tutte le questioni analoghe, a cominciare da quella delle utilities energetiche, grandi e territoriali. È necessario trovare un punto d’equilibrio tra la necessità di far cassa; anche per alleviare la fiscalità locale; l’esigenza di aprire il mercato per migliorare i servizi e abbassare i prezzi; e lo sforzo di far crescere le imprese italiane, non chiudendole nella proprietà pubblica e domestica. Gli ultimi vent’anni, in ogni caso, forniscono un manuale d’istruzioni – soprattutto di errori da non commettere – che i tecnici dei primi anni ’90 (a cominciare da Carlo Azeglio Ciampi ) non possedevano.