Non sorprende che all’indomani del weekend natalizio in cui il super-ministro Corrado Passera ha sfornato una soluzione strategica per Edison, i grandi “media” riecheggino lavori in corso e tensioni crescenti nel capitalismo domestico. Il Corriere della Sera dedica due pagine in apparenza a un capitolo di storia finanziaria: una lettera inviata nel 2002 da Vincenzo Maranghi (allora amministratore delegato di Mediobanca, oggi scomparso) a Salvatore Ligresti, cui Via Filodrammatici avrebbe affidato la Fondiaria, da concentrare con la Sai.
Le preoccupazioni di Maranghi per una gestione ritenuta troppo familiare e poco manageriale delle diverse attività del gruppo dell’ingegnere siciliano si riverberano ovviamente sulla crisi corrente della FonSai, ma il rilievo segnala un allarme estremo da parte della Mediobanca di oggi, guidata dai delfini di Maranghi, Renato Pagliaro e Alberto Nagel. Del resto una lettera così riservata tra il capo dell’istituto e un alleato storico di Enrico Cuccia (un legame che negli anni ‘80 saldò i rapporti tra Mediobanca e Bettino Craxi) può essere filtrata solo dagli archivi di Via Filodrammatici, con una finalità apparentemente precisa: avvertire la famiglia Ligresti che Mediobanca non prenderà in considerazione ristrutturazioni non proprie o non concordate del capitale Fondiaria. La compagnia è già stata salvata un anno fa – con il contributo decisivo di Mediobanca e UniCredit e detiene quote importanti dello stesso istituto, oltre che di Rcs.
A Piazza Affari, d’altronde, si rincorrono da giorni voci su possibili interventi di capitali “esterni” alla galassia Mediobanca: ad esempio, portati da quello stesso Matteo Arpe che poco più di un mese fa aveva tentato la scalata alla popolare di Milano (con l’apparente consenso della Banca d’Italia). E, almeno sulla carta, il decreto “salva Italia” ha introdotto anche incompatibilità più severe per gli incarichi nella governance di banche e assicurazioni: guardando apparentemente allo scioglimento degli incroci esistenti tra grandi istituzioni finanziarie (ad esempio, le Fondazioni CariVerona e Crt, UniCredit, Mediobanca, Generali e la stessa Fondiaria; oppure tra Fondazione Mps, Caltagirone, Mps e Generali; oppure ancora Mediobanca-Generali, Intesa Sanpaolo e Telecom). Non va dimenticato che, sulla spinta dell’Eba, le grandi banche italiane sono chiamate a nuove ricapitalizzazioni e UniCredit (assieme a Mps) sta varando un delicato aumento da 7,5 miliardi.
Sul nuovo rafforzamento patrimoniale di Piazza Cordusio Repubblica ha acceso sempre ieri un riflettore laterale, ricordando le difficoltà finanziarie del gruppo industriale di Paolo Biasi, il presidente della Fondazione CariVerona. Anche se la situazione era nota, è evidente che le incertezze sul futuro di UniCredit sono forti. La Fondazione veronese – a fianco di quella torinese pilotata da Fabrizio Palenzona – ha già dato sostegno alla ricapitalizzazione, ma è evidente che – ai corsi di Borsa attuali, molto svalutati – la sottoscrizione dell’aumento potrebbe spostare gli equilibri di controllo della maggiore banca italiana. E non è mancato (Francesco Giavazzi su Il Corriere della Sera pochi giorni fa) chi ha riespresso l’auspicio che i riassetti proprietari post-crisi espellano definitivamente le Fondazioni, rimaste ormai le sole azioniste nazionali di presidio alle grandi banche e a quanto sta attorno.
Quale sarà, ad esempio, l’atteggiamento in UniCredit del socio tedesco Allianz o di altri investitori di Francoforte in una banca che resta il frutto della fusione con Hvb? Piazza Cordusio ha oggi d’altronde nel suo capitale una quota rilevante (7%) da parte dello Stato libico, reduce dall’abbattimento del regime di Gheddafi. Non da ultimo l’ultimo aumento (in strumenti ibridi) è stato appoggiato dalla Mediobanca allora presieduta da Cesare Geronzi. Proprio l’ex presidente di Mediobanca e delle Generali (lo è stato fino all’aprile scorso, prima di essere bruscamente rimosso) ha rotto il silenzio un paio di settimane fa – sempre su Il Corriere della Sera – con una lunga intervista: anzitutto per respingere gli addebiti mossigli dalle pesanti condanne in primo grado per i crac Parmalat e Cirio. Ma Geronzi (storico amico dell’ex sottosegretario alla Presidenza Gianni Letta) non ha mancato di delineare uno scenario politico-finanziario più ampio: quello in cui l’avvento del governo tecnico segni una fase di definitiva chiusura dell’“era Berlusconi” anche negli equilibri del capitalismo domestico. Tanto più che Monti ha inserito una nuova fase di privatizzazioni nel suo programma.
La spartizione di Edison tra Edf e i soci italiani segnala nel frattempo un approccio diverso da quello prediletto nei primi anni ‘90 da Mario Draghi, favorevole alle offerte in Borsa e ai tentativi di “public company”. La soluzione Edison avviene infatti a un tavolo bilaterale di sistema: hanno deciso più gli interessi nazionali di Italia e Francia che quelli del mercato e d’altronde Edf non è quotata e A2A è saldamente controllata da due grandi municipalità come Milano e Brescia.
Quel che è certo è che neppure il governo Monti è totalmente assorbito da manovre finanziarie e riforme strutturali. E che dopo mesi di angosce attorno a bond sovrani, euro e spread, si ritorna a parlare di azioni: forse più nei palazzi del potere politico-economico che in Borsa. Ma certamente non in modo sterile: le grandi manovre sulle proprietà dei grandi gruppi stanno ricominciando. Non sembrano scontate né le premesse (a cominciare dalla difesa dell’italianità) né gli esiti: ma i protagonisti – per gran parte gli stessi degli ultimi vent’anni – non dovrebbero far mancare uno spettacolo degno.