Su Il Sole 24 Ore ci hanno pensato Romano Prodi (ex Presidente della Commissione Ue) e Giuliano Amato (già membro della Costituente europea) a sollecitare il Premier Mario Monti (ex commissario all’Antitrust comunitario) a “non mollare” sulla riforma della governance dell’euro, che si decide tra domani e venerdì a Bruxelles. Un gergo ruvido, ma evidentemente necessario quando – sui “media” italiani degli ultimi giorni – il conto alla rovescia per il super-vertice europeo è stato eclissato dal confronto sulla manovra appena varata dal governo: come se quest’ultima non dipendesse quasi esclusivamente dalla crisi dell’euro e dalla (discutibile) attribuzione finale all’Azienda-Italia di responsabilità ancora maggiori di quelle addossate alla Grecia per un default reale. Di più: come ha efficacemente avvertito l’industriale Gianfelice Rocca – l’altra sera a Monza per un dibattito sul documento di Cl su crisi e cambiamento – la stessa riforma dell’Eurozona non è che un passaggio intermedio in una fase di aggiustamento strutturale dell’economia globale. “Gli ultimi quattro anni sono stati molto problematici per gli Stati Uniti e per l’Europa – ha ricordato Rocca -, ma hanno portato sviluppo in molte altre aree del pianeta, dall’America latina all’Asia”. Le crisi bancarie, i bilanci statali sotto pressione, le tensioni valutarie non sono problemi tecnici in sé: sono freni pesanti alla competitività di un Paese o di un continente, alle loro capacità di combinare capitali finanziari e umani, imprenditorialità, istituzioni, visione complessiva dello sviluppo.



Non è comunque un caso che anche il segretario al Tesoro Usa, Tim Geithner, abbia deciso di fare un salto in Europa: addirittura, ieri, in Italia. Uno dei segnali di quanto il nostro debito pubblico si sia ritrovato a essere – per molti versi – il punching-ball di un duro confronto-scontro tra i pesi massimi della geopolitica è giunto del resto quando anche la Casa Bianca ha cominciato a esprimere “preoccupazione” per lo spread dei Btp italiani. Un fatto decisamente anomalo, come resta anomalo il puntuale “warning” di Standard & Poor’s che alza ancora il tiro su tutte le “triple A” dell’Eurozona, compreso quella del fondo salva-stati Efsf: parziale risarcimento a Obama (declassato con infamia in agosto per “incapacità politica” nel gestire le finanze federali al Congresso) e avvertimento all’Europa – al duo Merkel-Sarkozy – di non prendere decisioni troppo autonome, dure e “commissariali” rispetto agli altri paesi (e anche rispetto ai desiderata degli Usa e delle grandi banche globali).



Ma cosa vuole il direttorio franco-tedesco dell’Eurozona? Non potendo cambiare i trattati di Maastricht del 1992, i 17 paesi-membri dell’Eurozona dovrebbero siglare un “protocollo aggiunto”: un patto intergovernativo che avvierebbe l’integrazione tra le politiche fiscali. L’impegno al pareggio di bilancio (quello che anche l’Italia si è impegnata a rispettare dal 2013) si accompagnerebbe a un sistema di sanzioni automatiche. È la condizione che soprattutto la Germania (sotto elezioni, non diversamente dalla Francia) vuole imporre per continuare l’avventura-euro: soprattutto se questa prospetta, nell’immediato, una politica monetaria più espansiva, con nuovi tagli dei tassi da parte della Bce di Mario Draghi per stimolare la crescita. Dall’altra parte si profila il rafforzamento del Fondo salva-stati, soprattutto in funzione di rassicurazione preventiva dei mercati su nuovi “casi-Grecia”.



Tutte le caselle andranno al loro posto? Davvero difficile prevederlo e non è un caso che le Borse ieri ne abbiano approfittato per una sterzata speculativa al ribasso. I paesi “non-core” accetteranno le regole preannunciate da “Merkozy” a Parigi? Proprio l’Italia, in teoria, avrebbe tutte le ragioni per non firmare “tutto, maledetto e subito”: cosa di cui si stanno già lamentando paesi fuori dall’euro, come la Polonia e, soprattutto, la Gran Bretagna. Il nostro sistema-Paese non ha contribuito allo scoppio originario della crisi bancaria ed è perfettamente solvibile: il suo debito è alto rispetto al Pil soprattutto per la bassa crescita, in parte legata alla forza dell’euro stesso. E ora ha svolto – forse per tutti – i durissimi “compiti a casa” chiesti/imposti da Bce e poi da Germania, Francia, Stati Uniti, mercati. Per questo Prodi e Amato premono su Monti perché non ceda ai vecchi richiami della cosmopolita foresta tecnocratica e tratti da pari a pari con i partner-fondatori: niente diktat a paesi “vinti”, gli acquisti di Btp con spread a 500 punti, da parte della Bce, sono stati fatti anche “in conto terzi” (se il governo Berlusconi avesse varato una manovra credibile in agosto, il “contagio” ai titoli di stato francesi e tedeschi si sarebbe propagato subito, non solo dopo l’avvento del governo Monti in Italia).

Ma sul tavolo restano temi più generali: politici, non tecnici. Tutti dovranno fare i conti con la spinta a tenere l’euro “alto” (politiche da parte della Germania, economiche da parte degli Usa) e l’esigenza opposta di “abbassare” l’euro per facilitare la ripresa (ciò che farà la Bce imitando sempre di più la Fed). Stando sempre attenti che i “quantitative easing”, cioè le immissioni di liquidità per sostenere le banche e quindi il credito alle imprese, non portino l’Europa dentro una “trappola giapponese” di stagflazione e speculazione selvaggia sui mercati finanziari.

In ogni caso, un euro “stabilizzato”, anche con riforme strutturali e politicamente condivise, non basta. E all’Italia certamente non serviva un’austerity per certi versi imposta come un cerino acceso. Un industriale (non un finanziere) globale come Rocca non ha avuto dubbi a concordato con la visione di Cl: la crisi non è “un problema da risolvere”, la crisi è “una sfida al cambiamento”. Non è la moneta che crea il lavoro, il reddito, il progresso. È l’esatto contrario: è il lavoro impegnato e intelligente che crea la solidità di una moneta e degli altri fondamentali di un’economia.