Al convegno Forex-Assiom-Aiaf, per consuetudine, non è prevista alcuna replica all’intervento del Governatore della Banca d’Italia. Sabato prossimo, a Verona, toccherà quindi ancora una volta al pallottoliere delle presenze e delle assenze in platea, all’applausometro, al “nasometro” dei giornalisti nel backstage registrare le attese e le reazioni di banchieri e bancari riuniti nella “loro” convention annuale, alle parole di Mario Draghi.



Nessuno dei cinque “Forex” precedenti ha mai segnalato alte temperature nel “feeling” tra il sistema bancario domestico e un banchiere centrale eternamente sospeso tra l’essere reduce dalla Goldman Sachs, l’essere candidato alla Bce o al Fmi e l’essere, anzitutto, il leader in carica del Financial Stability Board e non il banchiere centrale italiano.



La stessa inedita “visita pastorale” di Draghi due lunedì fa all’Abi è probabilmente servita a chiarimento utile sul piano operativo. Gli echi filtrati dallo stretto riserbo hanno trovato un riscontro in tempo reale in due provvedimenti strutturali varati dal decreto milleproroghe: la neutralizzazione fiscale di una ventina di miliardi di “imposte differite”, che rischiavano di appesantire i bilanci bancari al primo test di Basilea 3; e la cancellazione del gap tributario tra fondi comuni di diritto italiano e di diritto estero.

Ma il firmatario delle “concessioni “ è stato pur sempre il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, e l’appello delle banche al Governatore è risuonato – e continua a risuonare sui “media” alla vigilia del Forex – sempre più come una denuncia affannata verso una vigilanza bancaria ritenuta poco attenta (ai limiti della latitanza) alle esigenze di un sistema creditizio che ha pur sempre superato quasi indenne la prova della crisi finanziaria globale.



Al suo primo Forex, nel 2006, Draghi aveva voluto subito marcare il cambio di musica rispetto alla contrastata stagione di Antonio Fazio, strigliando le banche italiane. Il neo-Governatore aveva rimproverato loro ritardi e resistenze in una loro necessaria “ritirata” dettata dall’affermazione storica della finanza globale di mercato rispetto ai modelli bancocentrici nazionali. Le banche italiane – di cui Draghi sottolineava la presunta inefficienza relativa rispetto a quelle estere – avrebbero dovuto accettare di essere disintermediate a favore di Borse, hedge fund, private equity, asset managers, Ipo e Opa, strumenti strutturati di finanza d’azienda: cioè di tutto quello che, dopo il fallimento di Lehman Brothers, nel 2008, è considerato la “pozione infernale” che ha semidistrutto i mercati, innescato la recessione e tolto dal controllo di chiunque il riassetto dell’economia globale. Fino a rendere instabile – in modo impensabile, via speculazione delle commodity alimentari – perfino la leadership del colonnello Gheddafi in Libia.

 

Solo dal 2009 in poi, ma a denti stretti, Draghi ha via via reso merito al sistema creditizio nazionale: presidiato nella proprietà dalle Fondazioni o dalla grande cooperazione bancaria; strategicamente meno proiettato sui mercati finanziari e di più nell’intermediazione creditizia tradizionale, tra risparmio familiare e prestiti alle Pmi.

 

In attesa di entrare nell’arena del Forex 2011, Draghi si è goduto una settimana di prevedibile giubilo propagandistico della stampa anglosassone per il traumatico ritiro del tedesco Axel Weber dalla corsa per la Bce e ha occupato il suo pezzetto di scena al G20 dei ministri finanziari a Parigi.

E ha presentato il “programma di lavoro per il 2011”. Primo: sviluppo della riforma di Basilea 3. Secondo: messa a punto della lista mondiale delle “banche sistemiche” (vi sarebbero anche UniCredit e Intesa Sanpaolo) e delle regole di supervisione rafforzata per le mega-banche troppo grandi per fallire. Terzo: progresso della lotta alla “shadow banking”, ai circuiti finanziari che rimangono grigi, inquinati e altamente tossici fuori dai rilevatori contabili e di vigilanza dei “regulator”.

 

È un menu attraente per i banchieri-bancari italiani in marcia per Verona? Difficile. Su Basilea 3, in particolare, tra Abi e Bankitalia – anche se sottotraccia – è quasi scontro. E il Governatore è a un passo dall’accusa esplicita di sottoporre le “virtuose” banche italiane a un trattamento ultra-severo – da prime della classe o da cavie – per sostenere la sua candidatura alla Bce: per convincere la Germania (le cui banche hanno semi-fallito la prova della crisi finanziaria), facendone pagare le conseguenze all’Azienda Italia, obbligando le banche a ultra-ricapitalizzarsi (mettendo sotto pressione le Fondazioni) e non prestando attenzione ai rischi di razionamento del credito, proprio mentre il sistema produttivo cerca di ritrovare la strada della ripresa.

 

In soccorso di banche e assicurazioni nazionali, ancora una volta, è giunto Tremonti, con un intervento normativo tecnicamente controverso, ma politicamente inequivocabile: la possibilità – introdotta sempre nel milleproroghe – di derogare agli Ias (in principi contabili internazionali) nel valutare alcune poste del bilancio d’esercizio attraverso il criterio del “fair value”. Un’ennesima “contestazione del mercatismo globalista”: in attesa – forse – che a Draghi (in partenza per la Bce o il Fmi) succeda al vertice di Via Nazionale il direttore generale del Tesoro, Vittorio Grilli.