Com’era prevedibile – e non augurabile – al convegno Forex di Verona il governatore Mario Draghi e i “suoi” banchieri hanno continuato a non capirsi. Draghi non ha mancato di toccare qualche corda emozionale: “Il nostro sistema”, ha scandito a un certo punto, alzando gli occhi diritto verso la platea. Che però non si è sciolta: tutti i presidenti, amministratori delegati, alti dirigenti operativi presenti sanno bene che il “sistema” prediletto dal banchiere centrale venuto dalla Goldman Sachs e candidato alla Bce non è quello bancocentrico, orientato all’intermediazione diretta tra risparmio e credito sul territorio.

Ma il popolo del Forex non si è scomposto più di tanto neppure quando il numero uno della Banca d’Italia si è concesso una frecciata inusuale, rintuzzando le accuse di “vigilanza asfissiante” rilanciate negli ultimi giorni da un quotidiano finanziario. Il cattivo umore verso gli atteggiamenti di Palazzo Koch è diffuso e trasversale nell’establishment creditizio nazionale e il governatore non ha avuto bisogno di sentirsi fischiare le orecchie leggendo le rassegne stampa: il “cahier de doléances” gli è stato elencato direttamente tre settimane fa, a porte chiuse, dall’esecutivo Abi al completo. E poi se c’è in questo periodo un banchiere impegnatissimo sul fronte mediatico, questo è Draghi stesso, variamente sostenuto o combattuto dalla grande stampa globale come possibile presidente della Bce.

Anzi, per l’appunto, il disagio delle banche verso la vigilanza è alla fine collegato agli approcci di un governatore spesso assente ai tavoli domestici, salvo poi tornare regolarmente da qualche foro internazionale (primo fra tutti il suo Financial Stability Board) con “tavole della legge” che collidono con gli interessi immediati delle banche italiane e del sistema-paese. È stato così che al 17esimo Forex è giunto puntuale l’ennesimo appello ad accelerare il rafforzamento patrimoniale con aumenti di capitale: il primo dei “comandamenti” di Basilea 3, che tuttavia modula fino al 2019 gli interventi di consolidamento dei bilanci bancari in funzione anti-rischio e anti-crisi.

“Dovete fare gli aumenti prima del nuovo stress test”, ha sottolineato Draghi poco dopo il saluto dell’ospite Carlo Fratta Pasini: il presidente di quel Banco Popolare che ha appena condotto in porto una ricapitalizzazione da 2 miliardi, dopo aver chiesto e ottenuto quasi altrettanto sotto forma di Tremonti-bond. In prima fila ascoltava il presidente dell’Abi, Giuseppe Mussari, che guida il Montepaschi di Siena, altro istituto (assieme alla Popolare di Milano) sorretto da un – pur limitato – ricorso alle obbligazione subordinate del Tesoro e non ancora a posto con i requisiti minimi di patrimonio prudenziale (Tier 1).

Al governatore “sordo” ai loro appelli a tenere con l’adozione di Basilea 3 una velocità almeno non superiore a quella degli altri sistemi, hanno risposto col mutismo, con la smentita preventiva circa le ipotesi di nuovi aumenti di capitale, con la conferma che la politica dei dividendi rispetterà criteri di moderazione, ma non di severità draconiana. “Intesa Sanpaolo distribuirà dividendi” ha ribadito Andrea Beltratti, presidente del consiglio di gestione del gruppo.

 

La “durezza globalista” di Draghi, del resto, non sembra preoccupata di colpire alla linea di galleggiamento le corazzate della flotta bancaria italiana. Ma tant’è. Chiedere sospensione delle cedole e ricapitalizzazioni significa infatti togliere ossigeno alle grandi fondazioni azioniste (cioè bloccare le erogazioni in pubblica utilità sui territori), indebolire nell’immediato il valore delle loro partecipazioni bancarie e mettere in preventivo il reinvestimento in banca di una parte dei loro patrimoni via via liberati negli ultimi due decenni.

 

Vuol dire togliere mezzi alle iniziative pubblico-privato strutturate dal ministro Giulio Tremonti attorno alla Cassa depositi e prestiti. Vuol dire riproporre la questione del controllo delle grandi banche italiane: chi le ricapitalizzerà dopo che la Borsa italiana è stata distrutta e il risparmio gestito (fondi comuni e fondi pensione) non è mai stato fatto decollare per davvero? Come convincere i risparmiatori italiani a comprare azioni di quelle banche presso le quali, negli ultimi due anni, hanno forzatamente acquistato obbligazioni spesso meno remunerative dei titoli pubblici?

I fondi sovrani dei paesi emergenti – come ha ricordato proprio dal palco del Forex il sindaco leghista di Verona Flavio Tosi – hanno dimostrato tutte le loro insidie proprio sullo scacchiere italiano: non è trascorso neppure un anno dal laborioso ingresso degli investitori statali libici al 7% in UniCredit e il dossier è già diventato un’emergenza geofinanziaria. Mentre a consolare i banchieri italiani non è certo bastata la constatazione mercatista del loro governatore sul fatto che se l’economia italiana marciasse allo stesso passo di quella tedesca, anche i loro conti economici sarebbero migliori.

 

Colpa della bassa crescita, cioè sempre “colpa del governo”? Per di più di un governo che – ha di nuovo lasciato intendere il Draghi più “americano” – farebbe bene alla fine ad abbassare le tasse? A Verona il governatore non era venuto a cercare applausi, ma in ogni caso non li ha avuti.