Qualche sera fa ad Annozero il direttore de Il Corriere della Sera, Ferruccio De Bortoli, ha ammonito il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, a tenere la politica lontano dal sistema bancario. Tremonti ha avuto relativo buon gioco nel replicargli subito che nel cuore plurisecolare del capitalismo anglosassone – la Gran Bretagna – due giganti bancari sono tuttora nazionalizzati dopo i salvataggi della grandi crisi: non nel Paese che tra tre giorni celebrerà i 150 anni della sua unità.

De Bortoli ha voluto solleticare Tremonti sul suo personale attivismo in campo bancario, da ultimo con la promozione della Banca del Sud e la chiamata in campo del credito cooperativo grande (Popolari) e piccolo (Bcc) a fianco dello Stato. In parallelo, la Cassa Depositi e prestiti (Tesoro-Fondazioni) e i suoi fondi satelliti si accingono ad azionare a leva fino 40 miliardi di “fondi di sviluppo”, mentre le prossime settimane saranno decisive per capire se i due campioni nazionali Intesa Sanpaolo e UniCredit saranno favorevoli a far convergere i loro asset manager Pioneer ed Eurizon verso un unico polo, secondo i desiderata di Tremonti.

Non sorprende d’altronde che a mostrare (apparente) preoccupazione per il tema sia il direttore del quotidiano-ammiraglio di Rcs, in cui grandi gruppi bancari (Intesa e Mediobanca, a fianco di Generali) hanno importanti partecipazioni: tanto che continua a tenere banco la polemica tra Diego Della Valle (esempio non dominante di imprenditore italiano che ha investito capitali propri anche in Rcs) contro gli “arzilli vecchietti” Cesare Geronzi (banchiere transitato da Capitalia alle Generali via Mediobanca) e – forse – lo stesso Giovanni Bazoli di Intesa.

Ma sempre e solo di grandi banche e di “patrimoni del Paese” si parla attorno alle cronache riguardanti FonSai e il suo futuro dopo il disimpegno di Groupama; o del compromesso raggiunto sul vertice di Telecom, ancora una volta dal trio Mediobanca-Generali-Intesa, dominante nella holding Telco.

 

Il “colbertismo” di Tremonti sul terreno bancario è dunque più la realistica gestione politica di una situazione di fatto che una linea ideologica. L’Italia “bancocentrica” e la sua cornice strutturalmente mista esistono da prima dell’Unità: le grandi Casse di risparmio (a cominciare dalla Cariplo) il 17 marzo del 1861 erano già state fondate e in qualche caso molto sviluppate. Il sistema creditizio “capitalista” (quello che in Italia è stato incarnato dalla Banca commerciale italiana e dal Credito italiano) è venuto dopo e negli anni ‘30 era già in ginocchio. Fu allora che lo Stato fascista intervenne con l’Iri per tenerlo in piedi, ma in fondo per certificare il “dna finanziario” della penisola.

Oggi UniCredit e Intesa Sanpaolo (ma anche Mps, l’istituto del presidente dell’Abi, Giuseppe Mussari) sono ambedue “banche delle Fondazioni”, ma – vista ormai in retrospettiva – la parabola di Mediobanca (partorita dall’Iri e dal suo giovane funzionario Enrico Cuccia) non è così diversa da quella delle grandi Fondazioni odierne. La funzione di presidio nazionale di un “capitalismo senza capitali” – si è associata – in Via Filodrammatici – al collateralismo con il governo pubblico dell’economia: dodici anni dopo, Mediobanca è azionista italianissima di quella Telecom che aveva strappato agli Agnelli attraverso la “madre di tutte le Opa”, falò di vanità e guadagni per decine di banche di Wall Street.

 

Dallo scandalo della Banca Romana alla fine dell’800 al crollo del sistema bancario meridionale, un secolo dopo, il sistema creditizio italiano non è stato certo immune da “impasse” oscure o patologie strutturali. Ma, come ha ripetuto Tremonti ad Annozero, questo sistema bancario ha retto allo tsunami della crisi: quello olandese o quello britannico no.