In una conversazione niente affatto di routine con Michele Arnese su Il Foglio, il presidente dell’Assogestioni Domenico Siniscalco si è chiesto se – a fianco della Cassa depositi e prestiti – anche l’Inps possa scendere in campo in una strategia di valorizzazione del risparmio nazionale come risorsa-Paese: se possa rientrare, in concreto, nella vera e propria “battaglia del grano” lanciata in chiave di exit strategy finanziaria dal super-ministro dell’Economia Giulio Tremonti.

In estrema (e forse un po’ semplificata) sintesi: se il Governo crede nel ruolo della “nuova Cdp” come “banca della crescita” per dare dinamismo al risparmio postale, non è per nulla scandaloso pensare all’Inps come a una grande Sgr, come a gestore più attivo di risparmio previdenziale. Se la “nuova Cdp” si sta attrezzando a tappe forzate con una rete di fondi strategici (ultimo quello che potrebbe esordire intervenendo su Parmalat), l’Inps può non restare estraneo alle nuove combinazioni tra investitori pubblici e privati chiamati a raccolta dalla strategia e “neo-colbertiana” di Tremonti.

Le tecnicalità vanno certamente studiate (Siniscalco prospetta l’introduzione di nuovi conti d’accumulo nell’offerta dell’Inps). Intermediare verso il sistema produttivo il risparmio “minuto” affidato dalle famiglie alle Poste sottoforma di libretti e buoni o all’Inps sottoforma di contributi previdenziali obbligatori o volontari (anche se magari incentivati) non consente scorciatoie o passi lunghi: soprattutto quando il ritorno dei “bracci pubblici” e – soprattutto quelli meno abbienti – viene dichiaratamente contrapposto ai disastri prodotti nella gestione del risparmio collettivo dell’esasperata privatizzazione della finanza.

Il quadro di riferimento dell’analisi e dei passi di Tremonti – commentati da Siniscalco – è comunque chiaro, ai limiti della durezza: un Governo (di centrodestra) ritiene sua responsabilità ripartire da “vecchi” istituzioni come Poste e Inps, giudicate a lungo carrozzoni da disarmare e demolire. Ma a quasi tre anni dal crack Lehman – con le banche italiane in cura ricostituente di capitali – i marchi statali un valore-fiducia ce l’hanno ancora, non foss’altro per l’ombrello di protezione di un rating sovrano italiano ancora decente.

Sotto questo profilo, quella di Siniscalco è una voce molto particolare: dopo essere stato a lungo chief-economist dell’Eni e de Il Sole 24 Ore, l’economista torinese è stato direttore generale del Tesoro con Tremonti nel Berlusconi II, sostituendo il ministro durante la fase centrale di quell’amministrazione. L’idea di coinvolgere le Fondazioni nella proprietà della Cdp e di dirottarvi alcune quote importanti di Eni, Enel, Terna e Poste è stata sua: in parte manovra contabile, in parte nucleo di iniziativa strategica. Oggi Siniscalco è presidente dell’associazione dei gestori italiani e internazionali, cioè gli intermediari di risparmio privato che in quasi trent’anni sono giunti a gestire in fondi comuni oltre 450 miliardi di ricchezza finanziaria degli italiani.

È questo il mondo che da almeno due decenni si dichiara pronto a lanciare la previdenza integrativa: il “secondo pilastro” che dovrebbe sostenere il welfare della terza e della quarta età di decine di milioni di italiani. Ma i fondi pensione – chiusi o aperti – non sono mai decollati veramente e c’è chi dubita che gli italiani (così restii a destinarvi il loro Tfr) sarebbero sensibili anche a importanti agevolazioni fiscali. Di qui il realismo di Siniscalco sul ruolo dell’Inps, in parallelo con quello di Tremonti sulla necessità di affiancare e sostenere il sistema bancario nel sostenere il credito alle imprese.

La “finanza di sistema” potrà non piacere a Luigi Zingales – economista di Chicago e consigliere scontento di Telecom a guida bancaria -, ma saranno infine ancora una volta le Fondazioni a sostenere l’onere di ripatrimonializzare.