L’“endorsement” de Il Corriere della Sera a favore di una successione interna alla Banca d’Italia è giunto in parte inatteso. All’indomani della designazione di Mario Draghi alla presidenza della Bce, una sole voce si era levata con decisione per proporre il nome di Fabrizio Saccomanni, attuale direttore generale: quella di Angelo De Mattia, ex segretario particolare di Antonio Fazio in Via Nazionale, e oggi portavoce di Cesare Geronzi, da poco rimosso dalla presidenza delle Generali.

La maggior parte degli osservatori di stampa – compreso Gianni Credit – assegnava maggiori “chance” a Vittorio Grilli (oggi direttore generale del Tesoro) e a Lorenzo Bini Smaghi, attuale membro italiano dell’esecutivo Bce, prossimo a dimissioni obbligate con l’arrivo a Francoforte del governatore italiano. Entrambi – Grilli e “Lbs” – vantano un cursus tra i quadri Bankitalia e sono accreditati della fiducia del ministro dell’Economia Giulio Tremonti.

Alla struttura interna Bankitalia sarebbe riservata – in questo scenario – la direzione generale: probabilmente – si è scritto – a favore di Anna Maria Tarantola, oggi vice di Saccomanni: prima “quota rosa” a palazzo Koch, lombarda, docente alla Cattolica, lunga esperienza nelle filiali Bankitalia del Nord e – soprattutto – nell’area vigilanza bancaria, ormai prevalente sulla politica monetaria nelle funzioni della banca centrale.

Invece il Corriere – giornale milanese attento sia al neo-presidente della Bce che al super-ministro dell’Economia – si spende per Saccomanni: candidato di bandiera dell’establishment burocratico di Via Nazionale, esponente della tecnocrazia romana, in passato ritenuto vicino a Lamberto Dini, ex direttore generale della Banca d’Italia fermato nel ‘93 da Carlo Azeglio Ciampi in asse con Oscar Luigi Scalfaro al Quirinale a favore dello steso Fazio; infine ministro del Tesoro nel “Berlusconi I” e poi premier tecnico dopo il primo “ribaltone Bossi”: E l’endorsement – alla vigilia del tradizionale appuntamento del 31 maggio – giunge sotto la firma di Francesco Giavazzi, principe dei commentatori ultraliberisti della Bocconi, oggi forse un po’ meno sulla cresta dell’onda dopo la grande crisi bancaria.

Proprio Giavazzi, curiosamente, sei anni fa aveva guidato la campagna di stampa che aveva costretto l’“internissimo” Fazio alle dimissioni dopo il duro scontro su Popolare Lodi, Bnl e Rcs. Allora, le quinte colonne della finanza internazionale nella grande stampa italiana avevano appoggiato Ciampi al Quirinale nell’imporre al Governo Berlusconi-Tremonti il nome di Draghi – senza alcuna esperienza in Bankitalia – proprio per l’opportunità di punire e riformare la struttura interna a Palazzo Koch. E Giavazzi (che allora assieme a Luigi Zingales aveva lanciato anche il nome di Grilli) non ha potuto non ricordarsene, avventurandosi nel decantare una “kultur” Bankitalia legata a maestri economisti come Franco Modigliani o Federico Caffè.

Draghi – secondo Giavazzi – la possedeva nelle midolla e quindi era in fondo un “interno”. Grilli e Bini-Smaghi, invece, avrebbero corrotto la purezza della loro “kultur” servendo “la politica”, cioè Tremonti. In particolare, Giavazzi fa riferimento alla presa via via più forte dell’Economia sul sistema bancario italiano ed è significativo l’accenno ai “malumori di alcune Popolari”: con tutta evidenza quella di Milano, presieduta dal Massimo Ponzellini, simbolo di una “tecnocrazia tremontiana” che si fa più numerosa attorno alla stanza dei bottoni della Lega Nord.

In ogni caso: perché la sortita di Giavazzi sul Corriere? Un’interpretazione minimalista guarda a una difesa preventiva “di firma” dell’era draghiana al termine in Bankitalia. Una difesa non assunta in prima persona dal direttore, ma affidata a un bocconiano globalista, comunque obbligato alla fedeltà intellettuale: anche dopo il crack Lehman, per Giavazzi & Co. il padre di tutti i rischi resta il ritorno dello stato-banchiere. Esattamente quello che sta invece promuovendo Tremonti sul piano intellettuale e – soprattutto – su quello operativo: con il rilancio della Cassa depositi e prestiti, del Bancoposta, della Banca del Sud finanziata con bond fiscalmente agevolati.

Per di più, è già percepibile il passo diverso della nuova Consob “tremontiana” di Giuseppe Vegas, rispetto alla sonnolenta Commissione “giannilettiana” di Lamberto Cardia, anche in campo bancario (basti pensare ai “bond da banco” senza prospetto che Vegas ha preannunciato a brevissimo). Consentire a Tremonti – come questa nota ha già più volte messo nel novero della probabilità – anche l’ingresso nella stanza dei bottoni di Bankitalia è comprensibile che susciti allarme (peraltro molto più nei palazzi romani che nelle sedi delle grandi banche e delle fondazioni-chiave del Nord “tremontiano”).

È comprensibile, in particolare, che il Quirinale voglia continuare a riservarsi una “golden share” sostanziale nella nomina della più importante authority indipendente italiana: un po’ come l’Amministrazione Usa (grande estimatrice di Draghi, già top manager della Goldman Sachs) continuerà ad avere l’ultima parola sulla nomina del direttore generale del Fmi.

Ma se è comprensibile che Giorgio Napolitano voglia difendere il primato sostanziale del Quirinale – soprattutto in questa fase – può essere interessante collocare un endorsement pro-Saccomanni (di cui allora il Corriere si sarebbe fatto autorevole portavoce) nel più ampio quadro della crisi politica. La Lega – negli ultimi mesi vero “partito della governabilità”, assai più del Pdl berlusconinano – sta muovendosi in una chiara prospettiva di superamento del berlusconismo: forse molto accelerato se i ballottaggi comunali di domenica dovessero portare a una “debacle” a Milano e Napoli.

Se è accreditato uno scenario in cui la Lega potrebbe sganciarsi dal Pdl e tentare la strada del governo tecnico-politico di larga coalizione, il candidato di Umberto Bossi è chiaramente Tremonti. Ed è forse anche in questa prospettiva che il leader del Carroccio – nelle ultime settimane – ha riannodato molti fili con il Quirinale: ad esempio, a cavallo della data “scabrosa” del 17 marzo, 150° anniversario dell’Unità d’Italia.

Ora è chiaro che un Tremonti premier – accettato alla fine dal Quirinale oltre che dall’arco parlamentare – dovrebbe inevitabilmente cambiare il suo profilo da super-ministro tecnico – potente in quanto padrone di tutte le leve in campo economico-finanziario – a quello di alto mediatore, oltre tutto fuori da uno schema classico maggioranza/opposizione. La rinuncia a fare “bingo” istituzionale in Bankitalia può essere perfino considerato – per certi versi – il primo “ballon d’essai” che il “suo” Corriere lancia tra le gambe del “suo” ministro per metterne alla prova la capacità di approdare definitivamente alla dimensione di vero leader di governo.